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Commemorazione di Roberto Pazzi nel centenario della nascita di Re Umberto, 2004

By Novembre 21, 2018Settembre 21st, 2021No Comments

Discorso celebrativo del primo centenario della nascita di  Umberto II Re d’Italia

Roma, Campidoglio, 18 settembre 2004.

Altezze Reali, Eminenze, Autorità, Signore e Signori,

designato dall’ Unione Monarchica italiana all’ onore di commemorare nella città eterna, in Campidoglio, il quarto Re d’Italia, Umberto II nel centenario della nascita, avvenuta a Racconigi il 15 settembre 1904, dovrò anzitutto confessare di non aver mai incontrato il Sovrano sabaudo ancora in vita, ma di averlo potuto vedere soltanto da morto, il giorno del suo solenne funerale nella abbazia di Altacomba, in Francia, il 24 marzo 1983.

Ma dovrò anche subito precisare però che, nato io nel 1946, l’ anno stesso in cui il Re lasciò l’Italia per il Portogallo, non ho mai smarrito la consapevolezza che lo scorrere dei miei primi 37 anni tanti ne durò quell’ esilio – si iscriveva nella silenziosa assenza di un vero Re dall’Italia.

E mentre l’esilio si prolungava, la luce di cui si aureolava la figura dai tratti sempre più tragici di Re Umberto, lo rendeva ai miei occhi ancora più alto degli uomini della classe politica repubblicana che ho conosciuto, quella si, da viva, in patria, in quei 37 anni. Per prima cosa, per farmi subito capire da quanti avranno la cortesia di ascoltarmi, in questa sala, dovrò ricordare una verità certamente più cara ai poeti che ai politici. Ma è una verità che neanche un politico al mondo, nemmeno il più convinto repubblicano, potrebbe smentire.

Ed è che sempre, sempre, una favola inizierà “c’era una volta un Re” . E mai, mai, da nessuna parte del mondo e in nessun luogo della storia, c’era una volta un presidente della repubblica.

Devo subito premettere questa affermazione di estetica, incapsulando nella valenza e nell’aura della favola la figura di Umberto, in procinto di inoltrarmi a trattare più propriamente la rilevanza storica del suo regno, che durò non il solo mese di maggio del ’46, ma ben due anni, avendo egli avuto la pienezza dei poteri reali già dal 5 giugno 1944, quando Vittorio Emanuele III, a Ravello, lo nominò Luogotenente Generale del Regno.

Fu poi suo anche il titolo di Re, dal 9 maggio 1946, quando il padre, a Napoli, abdicò. Furono anni cruciali, che portarono il Re, fin da quando rientrò in Roma l’8 giugno del ’44, riaprendo il Quirinale, a trattare con Churchill, Eisenohower, CLN, i governi alleati, avviando i primi passi della ricostruzione del Paese. Ben altro che Re di maggio come certa preconcetta stampa lo ha definito, cercando di diminuire la portata della sua azione di governo.

Dicevo dunque, nel mio preambolo, che la favola inizierà sempre c’era una volta un Re. E’ infatti di quel nucleo di pensiero sulla, per così dire, “impoeticità” della repubblica e sulla valenza epico-fantastica della regalità, che si alimenta la mia simpatia per il Re Umberto II.

Vi devo quindi chiedere, ascoltandomi, di pazientare qualche minuto per seguirmi nel racconto di come nacque il mio rapporto di consonanza umana e poetica con questa figura, di Grande assente eppure così diversamente e intensamente presente nella mia mente, fin dalla mia prima infanzia, a Ferrara.

Non occorre rifugiarsi nella moda letteraria esterofila dell’epica nordica, oggi tanto in voga con Il signore degli anelli” di Tolkien, per ritrovare anche nella nostra anima latina, al fondo della nostra stona mediterranea, nell’epica dell`Iliade” e dell`Odissea”, il sentimento di un mondo di eroi, in lotta fra Umano e Divino, fra Bene e Male, dove la vita diventa anche il piacere di “servire ‘nella fedeltà a un Re un mondo intero, opposto a quello che si vede ad occhi aperti e che, per comodità di metafora, chiamerò “repubblicano”… Nella concezione occidentale dell’uomo, che prima di essere cristiana si è alimentata dell’idealismo di Platone e prima ancora dell’epica di Omero, palpita sempre “una professione di incredulità nell’onnipotenza del visibile”.

E’ questo il mondo e la sensibilità del mio romanzo di esordio, “Cercando l’imperatore” ( pubblicato nel 1985 da Marietti e poi da e I Longanesi ) dove si narra la fedeltà estrema al suo Sovrano di un reggimento russo, disperso nella Siberia, durante la Rivoluzione russa, alla ricerca dello Zar prigioniero.

Mi si conceda di ricordare qui di passaggio quanto l’orizzonte culturale più recente del nostro Paese abbia sofferto a causa della pur giusta reazione al fascismo, con i disastri che ha purtroppo causato all’Italia, dell’ostracismo verso una cultura di Destra, libera e alternativa al monopolio della cultura di Sinistra.

Una cultura, quella di Destra, demonizzata in quanto identificata solo col fascismo gentiliano, come lamentava anche l’indimenticabile amico Indro Montanelli, ammiratore dell’indipendenza di pensiero di una delle voci culturali più alte della cultura della destra, Giuseppe Prezzolini.

Torniamo però indietro nel tempo, intorno alla metà degli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia a Ferrara. Devo spiegarvi per quale strano caso il Tempo prese fin da bambino a scorrere, scandito e quasi giustificato dall’augusta assenza di un Re, che alimentava nel mito del suo possibile ritorno, il ritorno sempre aperto e sempre dilazionato di tutto quel che di grande, di epico, di sacrale poteva evocare il nome di Re.

Avrò avuto dodici anni, quando un giorno visitando un vicino nella vasta casa dove vivevamo, all’ultimo piano della banca dove mio padre lavorava, scoprii che teneva nascosta, dietro la porta di una stanza, affisso al muro. il manifesto di una fotografia, in cui giganteggiava, in divisa, un bell’uomo alto, dall’avanzata calvizie.

Era ritratta una famiglia intera, in un giardino, una coppia stupenda di un padre e una madre, circondati dai figli, tre bambine e un bambino., eleganti e compunti, con sul volto quel vago senso di timidezza e dignità che faceva riconoscere un’ autentica educazione.

– Ma chi sono ? – domandai d’istinto, prima che tentasse di chiudere la porta, al mio vicino. Ci sono momenti in cui in un lampo il futuro ti attraversa, e tu sei già quel che sarai…

– E’ il Re … con la nostra famiglia reale, ma sai, di Re oggi non ce ne sono più … e il nostro Re purtroppo è in esilio

Mi segnò per la vita la profonda tristezza che calava sul viso di quell’uomo, mentre mi parlava di quella realtà nascosta – era una foto del referendum, di cui il mio vicino che aveva votato per la Monarchia, come tutta la mia famiglia, non si era mai sentito di liberarsi.

Non capivo perché mai dovessero starsene nascosti un Re e una Regina cosi belli. Perché Umberto II e Maria Josè, belli lo erano davvero, ma di una cifra della bellezza oggi sempre più rara, la regalità. E’una luce interiore che, come la luce solare penetra la parete di un vaso d’ alabastro, traspare nel volto, nelle pose e nei gesti, ed emerge da un’attitudine a interpretare i sentimenti di un popolo e da un’educazione affinatesi in una stirpe lungo i secoli e nelle generazioni : quel che si chiama nobiltà del sangue. Ne “A la recherche du Temps perdu” di Marcel Proust e in alcuni romanzi di Thomas Mann  Buddenbrook, Altezza Reale, Tonio Kroger troviamo gli acuti osservatori delle alchimie del sangue che generano questa eleganza.

E’ una cifra oggi questa, introvabile nelle risposte alla nostra eterna ansia di bellezza, che si vanno a cacciare nei volti degli attori delle telenovele, dei calciatori drogati, dei cantanti di San Remo, degli eroi e delle eroine de il Grande Fratello, dell’isola dei famosi, tutta il oro) Barnum e la desacralizzata avanguardia di questa nostra orrenda società di massa. Forse solo Luchino Visconti, in piena età repubblicana, nel suoi film, ha saputo restituirci un raggio della bellezza regale in opere come “Il Gattopardo” o “Ludwig”.

Non capivo, dunque, davanti alla foto di quella famiglia cosi diversa, perché mai i suoi membri dovessero vivere lontani, impediti comunque di vagare per le vie del loro e mio Paese, dove intanto negli anni, grazie alla diffusione della tv, vedevo fino alla sazietà aggirarsi invece i vari Gronchi, Segni, Saragat, Leone, la sconfortante serie di personaggi assolutamente dimenticabili, del tutto intercambiabili e privi di carisma, da cui avrei dovuto felicitarmi di essere rappresentato e governato, senza invece, provare altro che un costante senso di noia e inadeguatezza.

Taccio poi lo sconforto di vedere le mogli di codesti signori, le piccolo borghesi a cui la servile piaggeria di certi giornalisti affibbiava il titolo pomposo, da romanzo d’appendice, di Donna, oggi Carla, domani Laura, dopodomani Vittoria, tutte povere metastasi della figura assente della Regina: Ia nostra bellissima e popolare Maria Josè

I bambini non capiscono niente di politica, per loro fortuna.

Ma anche i poeti, per nostra fortuna invece, ne capiscono poca, come, con vera ammirazione per questo loro nervo mancante, affermava Carlo Marx, a proposito del suo amico Heine.

Ed è per questo che le voci dei poeti volano molto più in alto di dove possa spingersi il razionalismo adulto, di chi non crede più alle favole, ma accetta Io scorno di chi crede che la realtà sia solo quello che si vede”, come diceva Eugenio Montale.

Sta di fatto che, dodicenne, di lì a un anno dalla scoperta della fotografia della nostra Famiglia Reale, nascosta dietro la porta della stanza delle scope, decisi di scrivere a Cascais, al Sovrano. Non vivevo più in quella casa, dove ne avevo scoperto l’esistenza. Ricordo che scelsi un inchiostro speciale, di china verde, e comperai una penna apposita : scrivevo finalmente a un Re, non a un uomo comune, non potevo usare la penna di tutti i giorni.

Non so come, riempii 14 facciate intere di foglio, fitte fitte, ma non sono sicuro di ricordare bene il contenuto preciso di quella lunga lettera. Più che una vera lettera doveva essere un delirio di domande, uno sfogo di qualcosa di oscuro che sentivo mancarmi intorno, quando aprivo i giornali e accendevo il televisore e osservavo i politici repubblicani. Capiranno mai i nostri politici quanto male possa anche far loro mostrarsi spesso in tv ?

Confusamente credo di aver confessato al Re Umberto Il che tutto quel che emanava dalla politica italiana mi appariva brutto, goffo, noioso, mancante di grandezza e sacralità. Che in Italia, nella repubblica, non vedevo nessuno, ma proprio nessuno che mi paresse adeguato all’idea di un grande padre della Nazione.

Perché così mi pareva dovesse essere vissuto da tutti gli italiani colui che sta al di sopra delle parti, “au dessus de la mellée” perché non viene da nessuna delle fazioni. Un Re appunto, e nient’altri che un Re. Un uomo cioè che nasce per diventare capo dello stato e mentre cresce viene educato a questo compito di ‘.Reggitore di popoli”. Non ne ero ancora cosciente, certo, ma era proprio questo provvidenziale anacronismo della Monarchia, questa al gioco meritocratico, a garantirne il perenne funzionamento.

Perché, scrivevo nella mia lunga lettera con l’inchiostro verde, non posso credere che mi rappresenti chi è stato eletto con una votazione fra i partiti capo dello Stato, in quanto espressione di fazione. Senza ancora conoscerlo, nella lettera devo aver ripreso il filo d’oro di un ragionamento ben più grande di me, quello di Dante nel “De Monarchia” e nella “Divina Commedia”  dove il sommo Poeta sostiene la provvidenzialità dell’Imperatore, contro la cupidigia dei re nazionali, suoi feudatari, e la tentazione temporale dei Pontefici romani. Una visione tolemaica del Potere politico, lontana ancora dalla rivoluzione copernicana dello stesso.

Credo di aver confessato al Re come mi mancasse qualcuno in cui credere con tutte le mie forze, qualcuno che sarebbe stato bello sognare di poter servire come nelle Crociate, nelle guerre di fede, nella battaglia di Lepanto, nello scontro della Montagna Bianca, nelle battaglie fra i tre imperatori, quella di Austerlitz, a Waterloo, dove certo mi sarei immaginato di stare dalla parte del grande Napoleone … Di lì a poco avrei trovato nei romanzi di Stendhal, ne “Il rosso e il nero”, ne ‘La certosa di Parma”, in Julien Sorel e in Fabrizio del Dongo i miei compagni di ossessioni eroiche, vissuti in un’età di stagnazione morale come la Restaurazione.

Il sogno e il gioco avevano comunque prefigurato per tanti anni la fame di epos, di eroismo, di scontro fra amici e nemici, fra Greci e Troiani. Ma non volevo smettere di giocare, volevo giocare ancora, da grande, o al Re o al servitore più fedele del Re, il mio gioco preferito da bambino, non volevo svegliarmi, crescere, capire quella che ancora una volta dovrò chiamare, sotto metafora, realtà repubblicana …

Non si poteva sognare con i Gronchi, i Segni, i Saragat, i Leone, i Romita, i Secchia, i Tanassi, i Gui, gli Oronzo Reale, i Pacciardi, i Zoli,, i Sullo, i Gava padre e Gava figlio, i Luigi e Pietro Longo, i Mariano Runior, il triste larario della Prima Repubblica toccatoci in sorte.

Il loro essere borghesi, banali, privi di aura, me li respingeva, in quanto simili a me, a mio padre, al mio vicino di casa.

E già mi affascinava il gioco di proiettarsi sulle intricate parentele fra Sovrani, che la Storia mi aveva insegnato a ripercorrere, il sovramondo di relazioni per cui i Re potevano chiamarsi fra loro “mon frére”. Un sovramondo sacrale e mitico, rispetto al mondo sottostante dei politici, dei ministri, dei faccendieri.

Quel sovramondo delle Famiglie Reali, tutte consanguinee, come le Vostre Altezze Reali, mi faceva sognare le infinite relazioni fra gli dei della mitologia greca classica, che studiavo in Omero, dove nell’Iliade e nell’Odissea gli dei erano tutti figli, fratelli, sorelle, cugini, nipoti … Proprio come gli Asburgo, i Romanov, i Borbone, i Coburgo Gotha, i Braganza, i Lussemburgo, gli Orange Nassau, gli Windsor, i Sassonia, i Wittelsbach, gli Assia, i Savoia…

Cose del genere, se non proprio queste, devo aver espresso in quella delirante lettera scritta con un inchiostro diverso, con una penna comperata apposta.

Umberto II mi rispose attraverso il suo fedele ministro in Italia, Falcone Lucifero, facendomi inviare una fotografia più piccola certo di quella che mi aveva incantato dietro la porta della stanza delle scope del vicino, ma fregiata della sua firma con dedica “a Roberto Pazzi”. Inviò anche diversi apprezzamenli positivi su quel che avevo espresso, ma riferiti indirettamente dal suo ministro, mi delusero un poco.

Lo confesso, avevo ingenuamente sperato che il Re mi scrivesse. Ma il suo silenzio che col tempo giustificai – ero solo un ragazzino -, salvò l’uomo mitico della fotografia verde in divisa, nascosto dietro la porta della stanza delle scope. Perché lo preservò dal cadere nel raggio delle cose che si possono toccare e raggiungere, come tutti gli uomini politici repubblicani, che potevo vedere in giro per il Paese o per televisione e disprezzare, colpevoli di essere veri, di non farmi sognare, di non poter essere mitici come il mio Re.

Quando Umberto II morì, nel marzo 1983 – in uno dei passaggi più miserevoli della storia repubblicana, con Fanfani presidente del Consiglio e il sottosegretario agli esteri Darida che non sapevano come rispondere all’opinione pubblica, tutta a favore dell’immediato ritorno in Patria del Re perché potesse almeno morire fra la sua gente – dicevo dunque, quando Umberto II mori, il 18 marzo, a Ginevra, capii che ora sì, dovevo andare a trovarlo. Ora non avrebbe più potuto deludermi. Allora insegnavo alle scuole superiori e partii da Ferrara per i funerali con cinque dei miei migliori allievi, diciotto e diciannovenni, rimasti vivamente toccati da quello che dissi loro in classe, il giorno della morte del Re.

E lo vidi finalmente il mio Re, nell’abbazia di Altacomba, composto nella bara, con la divisa di Maresciallo d’Italia, senza gradi, sul petto le decorazioni, comprese le “polacche”, conferitegli dal generale Anders, dopo la battaglia di Cassino. Tra le mani un rosario, ai piedi una cassetta di terra delle regioni italiane.

La divisa, che attendeva di vestirlo per la morte, da 37 anni, in un armadio di villa Italia, a Cascais, era la stessa della fotografia dei mio vicino di casa, a Ferrara.

Il cerchio si chiudeva.

Ma la figura di Umberto II aveva già acquistato col tempo un rilievo tragico. Certo per me egli fu un mito, perché aureolato dalla magia del “se” Se fosse stato Re, se fosse stato in Italia, se avesse regnato … Mi ha permesso così di sognare in un luogo più alto della realtà, nelle terre del Mito, la suggestione di quel che non delude mai, perché non cade mai nelle nostre abitudini ma se ne sottrae, restando lontano, inafferrabile, preservato dalla umana legge che vuole che solo ciò che è impossibile da raggiungere e a da toccare ci paia perfetto e desiderabile. Ma il miracolo era stato possibile per I’eleganza interiore e di tratto, per il forte senso del dovere fino al sacrificio, l’assoluta fede cristiana, la fedeltà strenue al suo ruolo, la esemplare capacità di autocontrollo, l’eccezionale senso della dignità regale dell’uomo.

Non tutti i Sovrani in esilio hanno saputo essere all’altezza del loro difficile ruolo, una volta perduta la corona. E purtroppo, e credetemi che mi duole molto molto riconoscerlo, nemmeno tutti i discendenti di Umberto.

Umberto aveva capito a che patto, prima di guadagnarsi quello di Maestà, si merita il titolo di Altezza Reale. Il titolo è infatti un esercizio e un invito a mantenere sempre lo sguardo a una certa altezza delle cose, senza mai scendere troppo.

Non posso non domandarmi però oggi quanto sia costato all’uomo Umberto di Savoia, quel destino di Re liquidatore della partita della Monarchia, di Re pagante per le colpe non sue, di capro espiatorio per una intera dinastia. Forse avrà anche ricordato la nemesi che lo puniva dei sommari plebisciti sabaudi, che avevano travolto i Borboni di Napoli e quei dignitosissimi Francesco Il e Maria Sofia, dal destino così amaro e simile al suo e a quella di Maria José, pronipote della impavida Regina di Napoli.

Che eccezionale fede cristiana deve essere stata la sua, se è stata capace di sostenerlo in tutti quegli anni, solo, abbandonato, dimenticato in un angolo d’Europa ! Della dubbia legittimità del referendum egli doveva avere prove più certe di noi. Anche a noi comunque non ne mancano. E di ottimo conio. Ci sono lettere di De Gasperi a Falcone Lucifero, affermazioni perplesse al Re in visita di commiato, di Papa Pio XII, che aveva buone e riservate fonti d’informazione dall’Arma dei Carabinieri, preoccupate affermazioni dei generali alleati, molteplici testimonianze di presidenti dei seggi su gravissime violazioni e irregolarità, nonché molte dichiarazioni di votanti che non ritrovarono più la loro scheda allo spoglio.

E, per venire a tempi più recenti, ironiche testimonianze di Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia, che confessa su ‘Il Giornale”del 25 aprile 2004, come fossero state stampate più schede del numero degli iscritti alle urne, da utilizzare in caso di necessità e cioè di vittoria della Monarchia.

Che cosa deve aver sofferto Umberto che, consapevole della violenza subita, preferì patirla, piuttosto che spargere la guerra civile, per difendersi dal sopruso di un governo non imparziale …

Perché sta qui la grandezza più riposata della sua figura storica, ormai da tutti gli studiosi riconosciuta, come Mack Smith, uno storico poco tenero con i Savoia. Nel pensiero del Re, Casa Savoia aveva unificato l’Italia e non poteva dividerla per difendere la Corona, anche se ingannata.

E’ il senso del messaggio di Umberto agli Italiani dei 13 giugno, con cui egli scioglieva dal giuramento alla sua persona – non a quello alla Patria – l’esercito, letto alla radio dal ministro Falcone Lucifero, mentre lui volava su un Savoia Marchetti, verso Madrid, prima tappa del viaggio verso il Portogallo.

Ecco in che senso Umberto fu davvero un Re di portata storica. In quel momento, così difficile per l’Italia distrutta dalla seconda guerra mondiale, sull’orlo di una guerra civile nel Paese spaccato in due dal referendum, seppe anteporre l’interesse della Nazione che amava a quella personale e della dinastia.

Ma del senso tragico della figura di Umberto Il garantiva persino un intellettuale mio amico, del rango di Cesare Garboli, di recente scomparso, un critico non certo sospetto di simpatie monarchiche. Si sa che Umberto II, al suo arrivo a Cascais, a chi lo invitava a sperare in un futuro ritorno della Monarchia rispose : “no, le monarchie sono come i sogni, o si ricordano subito o si dimenticano”. Per Garboli quella risposta di amara lucidità di Umberto II era degna di Shakespeare.

Questa lucidità, unita al senso del nobilissimo sacrificio che volle compiere, per il bene del suo Paese, e alla straordinaria dignità con cui visse il suo lunghissimo esilio, ce lo rendono caro, oggi più che mai, mentre celebriamo il primo centenario della sua nascita.

E, permettetemi di ricordarvelo, Altezze Reali, rende questa figura della Vostra Casata – cui resta il merito storico eterno di aver unito l’Italia – un prezioso elemento di riferimento per il futuro del Paese nelle vostre persone. Il futuro dell’Italia conta anche su di Voi, perché il vostro nome è impresso nel dna di questo Paese.

Non sono forse ancora oggi le nazioni più civili e avanzate dell’Europa quelle dove un Re o una Regina, quasi tutti legati alle Vostre Altezze da antichi vincoli di sangue, garantiscono la vitalità delle istituzioni democratiche, nel Belgio, nell’Olanda, nel Lussemburgo, in Spagna, in Inghilterra, in Svezia, in Norvegia, in Danimarca, a Montecarlo ?

In esse la Monarchia costituzionale, con il Re che regna ma non governa, continua ad essere’il sistema politico che”álleva il futuro capo dello stato al suo mestiere, il punto di equilibrio superpartitico, la garanzia di continuità del Potere, che non conosce vuoto grazie al perfetto meccanismo di successione dinastica, l’anello dì congiunzione del presente col passato, un fattore di stabilità sottratto ai giochi effimeri e conflittuali delle alleanze e delle maggioranze di governo. E’ quanto abbiamo appreso da uno dei più grandi storici dell’Ottocento, Tocqueville e oggi in Italia possiamo rileggere anche nei saggi di Domenico Fisichella.

Ma la valenza più ricca e diffusa del mito regale vibra in mille aspetti della nostra cultura, ben oltre la politica. E qui vivrà sempre. Ed è celata nella psicologia collettiva, nel costume, nelle tradizioni, nelle abitudini, nei modi stessi che abbiamo più profondi e più sottili di ragionare, pensare, fantasticare, associare, proiettare. Perché – lasciatemi lanciare la provocazione – è monarchica ogni metafora della perfezione, non repubblicana. E lo dimostrerò subito con alcuni ragionamenti ed esempi.

La bellezza della Garbo. la genialità, di Mozart, fanno di donne e uomini altrettante Regine e Re. Re si nasce, allo stesso modo in cui si nasce Greta Garbo o Mozart Il genio non si può imparare, è un dono di una natura cieca nelle sue elargizioni, né c’è un metodo per  impadronirsi della bellezza. Non s’inventa uno sguardo, una guancia, una mano perfetta : “Penso le mani, le tue belle mani. Sono passati per farle Duemila anni di storia di Francia”

Così scriveva il poeta Umberto Saba in Liriche alla duchessa d’Aosta”, durante la seconda guerra mondiale, dedicando i versi alla zia di Vostra Altezza, Anna d’Orleans vedova dell’eroe dell’Amba Alagi.

La bellezza e la genialità sono antidemocratiche, ingiuste, impossibili da meritarsi e da raggiungersi. Ed è proprio, come dicevo poco fa, tale carattere a renderle struggenti, assolutamente necessarie per immaginarsi felici, questo sentimento della nostra esclusione dal loro cerchio fatato che trasforma in una sorta d’amore l’invidia a regime repubblicano – quella cioè delle cose che si possono meritare e raggiungere.

Contro la grande superiorità di un altro non v’è altro scampo che l’amore. O l’odio, che armò la mano di tanti assassini per amore, anche fra i rivoluzionari e gli attentatori alla vita dei Re, come il Luccheni, assassino della bellissima imperatrice Elisabetta d’Austria. O la mano dei rivoluzionari bolscevichi nella barbara strage dei bellissimi figli dello Zar e della Zarina, gli “imperdonabili” aristocratici la cui altezza di sguardo rammenta quella di altre due vittime della Storia, Luigi XVI e Maria Antonietta di Francia.

Non sono le cose che possiamo avere i beni che più ci sono necessari. Delle altre abbiamo fame, quelle a noi proibite, legate a un’elezione oscura e sottratta alla predeterminazione. Quelle connesse a un destino, i “doni”, per cui daremmo anni di vita.

Di recente ho riguardato certe fotografie di Casa Savoia pubblicate a cura di Vostra Altezza Reale, principessa Maria Gabriella.

Nel vago sapore viscontiano delle istantanee, ho riassaporato la cifra antidemocratica della felicità, cosi ben simbolizzata dalla Monarchia, col suo deliziosamente anacronistico corteo di ritualità.

Ho contemplato a lungo i principi e i Sovrani, ripresi negli ottantasei anni di Monarchia sabauda. E, ripensando alla classe politica repubblicana, poco fa evocata in cinquantotto anni di repubblica, ho capito che durante tutti questi anni una grande presenza mistica e regale, ma non laica, ha risucchiato e occupato lo spazio simbolico e mitico della regalità. A tale presenza ho dedicato due romanzi negli ultimi anni “Conclave” e L’erede”.

Ed è la figura millenaria, tutta italiana e romana – eppure europea dall’Atlantico agli Urali – del romano Pontefice. E’ lui, il Papa di Roma, la figura mitica e simbolica che ha catturato l’inconscio degli italiani e l’ha riplasmato e riposato all’ombra della sua valenza patema. E’ il Papa il vero capo dell’Italia dopo la caduta del Re, e non il presidente della repubblica.

La caduta della Monarchia ha indebolito la laicità dello Stato italiano anche perché nessun presidente della repubblica può avere la immensa forza di attrazione e di consenso conscio e inconscio del Papa, che sta a Roma, con lo straordinario retaggio di Pietro.

La millenaria consuetudine del potere dei Savoia, unita alla mistica della regalità, possedeva la forza di contrapporsi alla mistica del papato, che manca al capo dello stato repubblicano. Prova ne sia come nacque lo stato unitario, grazie ai Savoia che, nella persona di Re Vittorio Emanale II, per unificare l’Italia seppero sopportare la scomunica di Pio IX in ordine al superiore diritto all’unità di un Popolo intero, quel principio che il cattolicissimo Alessandro Manzoni riconosceva sacrosantamente cristiano, andando a Torino a votare, al primo senato unitario del regno, Roma come capitale d’Italia, nel 1861.

Una lettera di Paolina Leopardi, sorella del poeta, all’amica Brighenti, scritta da Recanati circa a metà dell’Ottocento, lamentava che con i Papi, quei vecchi tristi e incartapecoriti che venivano eletti sovrani dello Stato pontificio, non era possibile ricrearsi mai la vista, sognando ad occhi aperti nella giovinezza e nel fascino della coppia reale, la vita della nazione che si rigenerava.

Anche questa assenza dell’archetipo femminile priva l’immaginario degli italiani, a livello di simboli parentali del Potere, e

cioè di  famiglia, d’una felicità proiettiva. Il Papa appare da solo alla finestra del Palazzo, mentre la Monarchia è identificata nella coppia del Re e della Regina che appare al balcone insieme ai figli.

Non potrei terminare queste riflessioni implicite e corollarie al terreno dell’argomentazione storica e psicologica, per tornare a quello che più mi è consono della Poesia.

E forse basterà un’immagine per riassumere quel che abbiamo perduto, negandoci di vivere le favole ancora da grandi, esiliando la regalità.

Due anni fa la Regina Elisabetta II volle accettare l’invito di Ciampi a visitare per la quarta volta il nostro Paese. Privilegio raro per il Paese invitante, perché di rado i Sovrani d’Inghilterra accettano di replicare tante volte una loro visita di Stato all’estero. E’ parte della sottile e sapiente mistica della Monarchia, che cerca di non inflazionarsi, per non sottrarre aura a una visita e a un evento.

Il telegiornale di quel giorno dedicava ampio spazio alla visita della Regina inglese, soprattutto al solenne banchetto al Quirinale, dove i due capi di stato, coronati da una selva di ospiti, dovevano scambiarsi nel brindisi un saluto ufficiale, nel salone delle feste.

Alzai il volume, ma soprattutto misi a fuoco l’immagine, non volevo perdere un attimo di quella scena così rara nel nostro Paese.

La ripresa iniziò con un lento filmare i particolari della meravigliosa sala e della sfarzosa tavola del banchetto, mentre correva un commento di cui non ricordo parola, preso com’ero dalla visita

reale. Tutto pareva scorrere nei consueti binari di un’ufficialità che in tv finisce spesso per appiattire e snaturare ogni cosa, disossandola della sua specificità, in un’unica non commestibile poltiglia, come ci ha insegnato il geniale programma blob.

Ci fu solo un momento in cui trasalii, sentendomi stringere il cuore dall’emozione di quel che vedevo.

La telecamera in quel momento si soffermava sulla figura di Elisabetta II, in piedi a pronunciare il suo discorso, riprendendo a lungo la favolosa tiara di diamanti che scintillava sul suo capo, i meravigliosi gioielli che l’adornavano al collo, sul petto, ai polsi.

La figura che mi sorprendeva e mi emozionava non era più quella di un’anziana signora incoronata, adorna di diamanti e smeraldi.

No, quel che colpiva i miei occhi, in quel momento, era, nella luce dei gioielli, la luce della Storia.

Perché quelle gioie erano state sul, capo della Regina Vittoria, bisnonna di Elisabetta, e prima ancora della Regina Maria, consorte di Guglielmo d’Orange, e prima ancora della regina Anna Stuart, e prima ancora di Elisabetta I, la Regina Vergine, e prima ancora della sorellastra Maria la Cattolica, e su su su risalendo i meandri oscuri del Tempo, che la luce di quelle gemme illuminava, rivelando in quello splendore la continuità di una nazione…

Ma quei gioielli, spesso dono di nozze, nell’unione con membri della famiglia reale russa, francese, spagnola, austriaca, della nostra stessa, evocavano anche quel sovramondo europeo che i Reali costituivano rispetto ai politici, come le stirpi degli dei della mitologia tutte consanguinee. Qualcuna di quelle splendide pietre, lavorata a Parigi da Fabergè, aveva anche brillato sul capo della zarina Alessandra moglie di Nicola II, o dell’imperatrice Elisabetta d’Austria o dell’imperatrice Maria Teresa …

Dovere di cronaca dovette però, a un certo punto, costringere l’operatore televisivo a spostare la telecamera e a riprendere, vicino alla Sovrana inglese, la serie di eleganti signore che rappresentavano insieme ai loro mariti, preposti alle varie cariche dello Stato, le istituzioni della repubblica italiana.

E queste gentili signore pure mostravano di essere adorne di gioie offerte alla vista di tutti, sia dei presenti nella sala del banchetto che dei lontani osservatori come me, alla tv. Ma le loro gioie, assolutamente senza Storia, non potevano risplendere della luce di Elisabetta II, rimanevano mute.

Fu quello il momento in cui spensi il televisore.

Roberto Pazzi

Si ringrazia l’Ingegnere Domenico Giglio, benemerito Presidente del Circolo REX, per aver condiviso il testo di questa bellissima commemorazione.