Torniamo poi alle vicende di quelle giornate di trent’anni fa, tra cronaca a e storia: il gioco dei comunisti di Togliatti, nella doppia parte di ministro del re, con vestito blu e sorriso di deferente cortesia, e di capopartito si stretta osservanza staliniana, la legge del referendum, gli scogli procedurali sui quali si frantumò l’intesa fra il re e il suo governo: a questa rottura si deve far risalire la norma costituzionale transitoria che mise al bando Umberto, sua moglie e suo figlio, dall’Italia e anacronisticamente tuttora è in vigore.
Maestà, oggi si ricorda spesso, ingigantendola polemicamente, la svolta di Salerno con l’ammissione di Togliatti al Governo. Quella porta aperta ai comunisti, vista da parte monarchica, fu un errore politico scontato poi nella battaglia dei referendum?
“Storicamente i fatti si svolsero così: nel marzo del 1944, il generale inglese Mc Farlan, presidente della commissione alleata di Controllo, disse al governo presieduto dal Maresciallo Badoglio (si era formato l’11 febbraio succedendo al governo detto dei sottosegretari di Brindisi) che occorreva far entrare in Italia Palmiro Togliatti che attendeva a Tunisi, se non erro. Il Maresciallo Badoglio comunicò la notizia al consiglio dei ministri e nel mese di marzo giunse Togliatti in Italia. In un comizio da lui tenuto, se ben ricordo, sotto la galleria di Napoli, egli disse di trovare strano che i partiti politici non volessero collaborare col Re Vittorio Emanuele e col Governo Badoglio, che i partiti erano contro costoro, ma che data la coincidenza dei propositi – cacciata dei tedeschi dall’Italia e lotta contro la repubblica di Salò – occorreva collaborare . Sicché Togliatti propose che i partiti facessero una dichiarazione in tal senso, ma accettassero di partecipare al Governo. Si formò così il primo Gabinetto di coalizione dei partiti ( 22 aprile 1944) con cinque ministri senza portafoglio in rappresentanza dei partiti e precisamente Benedetto Croce per i liberali, Carlo Sforza per gli azionisti, Giulio Rodinò per i democristiani, Pietro Nenni per i socialisti e Palmiro Togliatti per i comunisti. Essi giurarono nelle mani di mio Padre e restarono in carica fino al 18 giugno1944, allorché si formo il primo ministero Bonomi.
Uomini come il liberale Benedetto Croce che fino all’arrivo di Togliatti in Italia non avevano voluto collaborare – malgrado tante insistenze – al governo Badoglio, accettarono di far parte di quel governo e dei successivi con partecipazione comunista.
Devo anche dire, per la verità, che nei rapporti personali tra me Capo dello Stato e il Ministro Togliatti egli fu sempre deferente e cortese, come non furono sempre alcuni altri”.
Perché Vostra Maestà accettò la separazione tra referendum e voto per la Costituente?
“Perché a me sembra più schietta espressione della effettiva volontà dei cittadini il voto personale diretto da parte di ognuno. Le elezioni dei Capi dello Stato, che siano capi del Governo, in molti paesi democratici sono effettuate così.
E in tal modo mo pare più accettabile da tutti il responso delle urne“.
Lo svolgimento di un referendum – quale fu quello del 1946 – deve compiersi nelle forme necessarie per rendere valida siffatta manifestazione tipicamente libera e democratica.. E questo non fu certo per il referendum del 2-3 giugno 1946: l’Italia ancora occupata da truppe straniere, le divisioni e i risentimenti ancora vivi soprattutto perché la tregua istituzionale che era stata convenuta tra Corona e Comitato di liberazione fu rispettata solo da me. I così detti miei ministri fecero e dissero e stamparono quel che lei sa contro l’istituto monarchico e anche personalmente contro di me, invece di rispettare la tregua come la rispettai io. Al punto che mentre i miei collaboratori volevano che io visitassi le varie città d’Italia, io me ne astenni volutamente e lo stesso discorso conclusivo per la Monarchia, nella campagna per il referendum, alla radio, non volli pronunciarlo io ma lo feci pronunciare da Falcone Lucifero, Ministro della Real Casa.
E malgrado tutto ciò nella preparazione dei referendum, malgrado non avessero preso parte alla votazione 250000 cittadini ancora prigionieri in terre lontane, malgrado non abbiano partecipato alla votazione le province di Bolzano e l’intera Venezia Giulia, nonché molti sfollati per le vicende belliche non ancora rientrati nelle loro sedi, malgrado l’equivoca scheda prescelta per il referendum, malgrado nel nord d’Italia la situazione politica interna non fosse serena per la presenza di questori e prefetti nominati dai comitati di liberazione dell’alta Italia, in cui – pur essendo stata larghissima la partecipazione dei monarchici alla resistenza – predominarono gli oppositori all’istituto monarchico , malgrado tutto ciò, se si accettano i dati del governo di allora la monarchia avrebbe perduto con oltre il 48% dei voti e la eventuale maggioranza repubblicana sarebbe stata solo di 244451 voti. Tutte cose vecchie ormai, ampiamente esposte e illustrate da vari scrittori, e in particolare dallo studio sulla “Invalidità del Referendum istituzionale del 2-3 giugno 1946″ , di Falcone Lucifero, edito da Rizzoli nel 1966”.
Vostra Maestà ritiene ancora oggi valida l’eccezione procedurale dei professori di Padova?
” La questione del quorum al referendum istituzionale, nel senso di non considerare votanti coloro che avevano posto nell’urna scheda bianca o scheda nulla, fu prospettata dai fautori della soluzione repubblicana, giacché in tal modo sarebbe apparsa maggiore la differenza tra i voti attribuiti alla repubblica e quelli attribuiti alla monarchia. E si disse la repubblica ha vinto con 12.717.923 voti, la monarchia ha perduto con 10.719.284 voti. Differenza di circa 2 milioni.
Ma se si considerano votanti anche coloro che deposero nell’urna scheda nulla o bianca si ha che io numero complessivo dei votanti fu di 24.946.942 persone.
E poiché il decreto legislativo che indisse il referendum stabiliva che sarebbe stata vittoriosa la parte che avesse ottenuto la metà più uno dei votanti, dividendo per due la suddetta difra globale di 24.946.942, si ha che la metà esatta è 12.473.472. E poiché, accettando i i dati del governo dell’epoca, i voti attribuiti alla repubblica furono 12.717.923, è da dedurre che la soluzione repubblicana prevalse per soli 244.451 voti.
Di questa opinione furono giuristi come il presidente della suprema Corte di Cassazione Pagano e il procuratore generale Pilotti. A me sembra che non si possa non considerare votante chiunque ha messo la sua scheda nell’urna ” per la contraddizione che nol consente“.
Qual é il suo ricordo più bello dei dieci gironi drammatici vissuti alla Reggia tra il 2 e il 13 giugno, quale il più triste?
“E’ difficile parlare di ricordo più bello in giorni che lei stesso definisce drammatici. Direi piuttosto ricordi commoventi di attaccamento e affetto alla mia Casa e a me. Il Palazzo del Quirinale fu aperto a tutti senza formalità alcuna: migliaia e migliaia di persone vennero a salutarmi; non c’era categoria di cittadini assente in questo commovente commiato.
E quando dopo il gesto rivoluzionario di quello che pur era il mio giverno, il governo del Re, nella notte dal 12 al 13 giugno, quando, prima della definitiva decisione della suprema Corte di Cassazione a sezioni unite, costituente l’ufficio centrale elettorale mi dichiarò decaduto e Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato, decisi di partire per evitare lotte civili e spargimenti di sangue – ricordo soprattutto e sempre con vivo rimpianto che il 19 giugno undici giovani monarchici erano uccisi a Napoli sol perché manifestavano la loro fede monarchica.”
Vostra Maestà sa che dopo trent’anni di esilio la sua persona gode, con l’affezione dei suoi seguaci, anche il rispetto e la considerazione di tutti gli italiani anche di quelli repubblicani, ora che il tempo ha fatto dimenticare le polemiche e spento i risentimenti. Se fosse abolita l’anacronistica norma di divieto costituzionale, Vostra Maestà lascerebbe l’esilio e tornerebbe a vivere in Italia?
“Certo. E’ la mia aspirazione da trent’anni. Quando si decise di affidare al popolo italiano la scelta sulla forma istituzionale, mai si parlò di esilio, da parte di nessuno. Né mai – io almeno – vi avevo pensato. Poi, durante i lunghi lavori della Costituente, si inflisse l’esilio a me, a mia moglie, a mio figlio. Una pena inesistente in ogni altra legislazione. E lo si fece con le Disposizioni Transitorie della costituzione. Disposizioni Transitorie! E son passati trent’anni“.
In quei tre decenni molte volte la repubblica ha indossato abiti monarchici. Umanamente Vostra Maestà non ha mai avuto la tentazione di sentirsi, per un giorno solo, per un’ora sola, repubblicano?
“Pur di dare anche io una mano alla pacificazione e alla ricostruzione del nostro Paese , tornerei col più vivo entusiasmo“.
A questa ultima domanda Umberto sostanzialmente non risponde ed io nel colloquio informale che ha seguito l’intervista vera e propria mi accorgo che è una domanda sbagliata. Parliamo di altri momenti eccezionali di vita italiana, legati alla fine del Regno di uso padre e sui quali si vanno indirizzandole mie ricerche e i miei studi degli ultimi anni: il suo discorso è aperto, informato, approfondito e sereno. Questo uomo-re ha il dono della cordialità, recepisce con attenzione le idee degli altri ed espone le sue con semplicità: chi parla con lui deve, per arrivare a stabilire un vero colloquio, su questo piano di umana semplicità, passare si, attraverso la schermatura della regalità, ma poi può cogliere, proprio in questo ostinato attaccamento al suo dovere di re, un lato umanissimo della personalità dell’uomo: le sofferenze di una vita difficile, più ricca di amarezze che di gioie, le speranze deluse, i ricordi di una grande tradizione storica sono per lui soprattutto un impegno morale che gli comanda di resistere, ad ogni costo, anche quando infuria la tempesta, fermo e risoluto al suo posto. In questa nostra epoca di sbandamento, in cui quasi tutti fuggono, se non altro per nascondersi nel proprio egoismo, l’esempio di un uomo solo, che da trent’anni combatte il suo buon combattimento, in fedeltà a se stesso e ai suoi doveri, merita rispetto e simpatia. MI accomiato da lui ringraziandolo per l’intervista concessami, per il colloquio che abbiamo avuto assieme: i temi discussi li riprenderemo.
“Mi scriva – mi dice – potremo incontrarci ancora, magari se lei passa da Parigi“.
Grazie, Maestà, arrivederLa.
Bruno Gatta – “Il Tempo” – 2 giugno 1976, ripubblicata il 19 marzo 1983