Umberto padre felice parla della figlia che va sposa
Intervista al Re di Flora Antonioni
Il colpo di fulmine con ponderazione, tra Maria Pia e Alessandro
Due giovani fatti per intendersi
Cannes, dicembre.
L’uomo che ha occupato per quaranta giorni soli il trono d’Italia e che è stato costretto dagli eventi ad abbandonarlo così burrascosamente e frettolosamente ha maturato nell’esilio una personalità senza dubbio diversa da quella che avrebbe avuto se la sorte fosse stata un’altra. Ai precettori di ieri che l’avevano educato in vista del regno, si è sostituito ad un certo punto quel precettore inatteso che si chiama destino e che ne ha fatto, nell’avversità, un uomo più umanamente vero e compiuto. Non dunque del re, ma dell’uomo che fu anche re, io posso oggi tentare il ritratto, desumendone i dati da alcuni brevi incontri avvenuti in terra straniera e da un incontro recente avvenuto in un albergo di Cannes, dove Umberto si era trasferito per qualche giorno, da Montpellier, dopo il rito funebre in memoria della madre.
A Cannes, come già a Montpellier, s’erano dati convegno alcuni suoi fedeli, di quelli più vicini al suo consueto entourage e anche a Cannes, come un confessore, la mattina seguente al suo arrivo Umberto aveva incominciato a riceverli uno per uno fin dalle ore sette. Fra gli altri aveva ricevuto anche una delegazione di dodici rappresentanti della nobiltà italiana, guidati dal duca Maresca di Serracapriola, venuti a presentargli un indirizzo di omaggio di cento nobili famiglie italiane in occasione delle nozze della principessa Maria Pia col principe Alessandro di Jugoslavia.
Il mio turno giunse a mezzogiorno. Umberto stesso mi aveva detto due giorni prima a Montpellier: «Ci vedremo a Cannes, dove avrò più tempo da dedicarle». A mezzogiorno e un minuto il capitano Mario Castellani troppo impegnato a servire «il suo Re» per avvertire i postumi dolorosi di un’operazione subita di recente a un arto ferito in guerra mi introdusse nel salotto dove Umberto di Savoia riceveva i visitatori, al quarto piano dell’Hotel Majestic.
L’impronta della stirpe
Umberto di Savoia non appare molto mutato nell’aspetto da quello che era ai tempi in cui partì per l’esilio; ha sempre lo stesso modo di incedere controllato e sicuro di sé, lo stesso smagliante sorriso, che solo a chi lo conosceva da prima può apparire sostanzialmente diverso, la stessa voce un po’ appannata che dicono somigli tanto alla voce del padre. Nel parlare evita con cura, più per intimo pudore di sé che per ostentazione, tutto ciò che può avere sapore di retorica, tutte le parole che non abbiano un’asciutta concretezza.
Neppure quando l’intima commozione lo agita, si riesce a carpirgli qualcosa che non sia più di un tremito leggero della voce, subito frenato, o di un lampo di passione, subito spento. E’ impossibile immaginarlo in preda alla collera. Nel gestire usa le mani con una discrezione assoluta – sono, le sue, le mani piccole, di pelle un po’ arida, caratteristiche dei Savoia -, porta il capo immobile e ben eretto sul collo, nella ferma compostezza di chi è stato abituato sin dall’infanzia non solo all’idea della corona, ma anche a non sussultare mai per nessuna ragione.
Ora la «maschera» di famiglia, l’impronta della stirpe sabauda si va distendendo come una patina sottile sul viso ancora fresco di Umberto, sicché a momenti, ad onta dell’alta statura che lo distingue così fortemente dal padre, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a Vittorio Emanuele III, mentre in altri momenti par di ravvedere in lui l’alta malinconia di Carlo Alberto. Solo gli occhi sono interamente suoi, ed è agli occhi che Umberto di Savoia affida tutta la propria personalità. Ma quando lo sguardo tende a «caricarsi» troppo, ecco che interviene di colpo, quasi a far da sipario, un riso secco e breve, in cui dilegua, tutto ciò che si era creduto di afferrare per un attimo.
Un bel ragazzo
Nessuna idea di «trono» nel piccolo divano di cinz a fiorami dal quale Umberto di Savoia si alza sorridendo per venirmi incontro, porgendomi la mano. Mi fa accomodare alla sua destra su una poltrona coperta dello stesso primaverile tessuto del divano. C’è in un angolo un paralume di seta arancione; vedo, posati su di una consolle, pacchetti di cioccolato e immagini destinati alla Piccola Principessa Chantal di Borbone Parma figlia di Maria di Savoia, che ho visto poco prima con la madre nella hall. Un fascio di rose tea accenna appena a sfiorire nel tepore del salotto dentro un vaso di cristallo, sul tavolino davanti a noi. C’è anche un portacenere, ma non scorgo traccia di sigarette, per quanto sappia che Umberto è solito fumare qualche Macedonia semplice.
«Vedo con piacere che lei questa notte deve avere dormito bene: ha il viso molto più riposato di ieri l’altro, quando ci incontrammo a Montpellier» osserva gentilmente Umberto. Gli rispondo che la stessa osservazione vale anche per lui, poi soggiungo: «Sono venuta fin qui per parlare… col padre della sposa!». «Già, il padre della sposa» ripete Umberto con dolcezza. «Le dirò, in gran confidenza, che mi piacerebbe essere… il fratello della sposa. Gli anni volano così veloci! Ad ogni modo, come padre della sposa, sono tanto felice: mia figlia non poteva fare scelta migliore. Alessandro è un ragazzo bellissimo (le fotografie, mi creda, non gli rendono giustizia, intelligentissimo e “in gamba” sotto ogni punto di vista. E’ un giovane che ha visto il suo Paese andare a catafascio, che ha conosciuto l’amarezza e le difficoltà dell’esilio proprio negli anni in cui, di solito, la vita si presenta piena delle migliori promesse. Ma Alessandro ha dimostrato di possedere solide qualità umane, di saper lavorare e destreggiarsi come un ragazzo qualunque».
Umberto dice queste cose con persuasivo calore, con intima convinzione, come parlasse di un figlio proprio, più che del futuro genero. «Mia figlia – Prosegue – si è trovata press’a poco nelle stesse condizioni e anche lei, prima di innamorarsi, ha studiato per mettersi in condizione di guadagnarsi la vita onorevolmente, come interprete, se fosse stato necessario. Sono quindi due giovani, lei ventenne, lui ventottenne, fatti per intendersi pienamente: anche Maria Pia conosce l’amarezza dell’esilio e non può sentir parlare dell’Italia senza commuoversi. Per questo si sentiranno più uniti, perché niente lega gli spiriti quanto la comune sventura. Poi hanno gli stessi gusti, la stessa mentalità direi, le stesse passioni artistiche e sportive. Ma quel che più conta è che si vogliono veramente bene ed è un peccato che si sia trovato a ridire sul fatto che lui è un principe jugoslavo, come se l’amore sincero avesse bisogno di visti doganali per esprimersi ».