Intervista tratta da “ Il segreto di due Re” di Nino Bolla – Rizzoli 1951
Mi riceve nello studio al primo piano, piccolo, accogliente, soffocato da libri e quadri; specie libri. E giornali, giornali….
“Leggo tutto. Tutto quello che posso avere , che mi mandano, anche ciò che si scrive contro di me, falsato o errato. Talvolta, da ciò che gli altri dicono di noi, impariamo a conoscere non soltanto noi stessi ma anche gli altri”.
Lo sento molto preparato e in gran forma , come se la visita di un italiano lo induca a parlare a cuore aperto , a sfogarsi. Se così posso dire, dopo tanto isolamento e tanta meditazione in un luogo che non porta di certo alla distrazione e all’oblio.
“Sorge il mattino e mi sorprendo quasi sempre con il pensiero all’Italia, cala la notte e prima di spegnere la luce e riposare, ho la visone della piazza del Quirinale, dei giardini del Quirinale, di Roma… la città che non si può non amare. Non riporti queste parole; o almeno le riporti il più esattamente possibile, perché potrebbe darsi che qualcuno invece di scorgere in esse il sentimento dell’uomo, vedesse o credesse di cedervi la nostalgia del Re.. Tutto mi si potrà negare, specie per partito preso; ma soltanto chi è in malafede può non riconoscere che io posseggo l’intelligenza per capire che la storia la fanno o la concludono, non tanto gli uomini quanto gli eventi. E giacché siamo in argomento, le dirò alcune verità che riguardano la mia partenza dall’Italia. Più che il gesto rivoluzionario, o principio circa la competenza come venne chiamato dal governo De Gasperi con burocratico eufemismo.; più che ogni palese o velata minaccia alla mia persona, a determinare la via dell’esilio fu il mio grande amore per una delle città più italiane: Trieste. E bene dirlo una volta per sempre. Come non ignoravo, parola per parola, quanto si diceva da parte dei più agitati nei notturni consigli dei ministri al Vicinale, così ero informato di ora in ora dei movimenti alle frontiere.”
S’accorge che prendo appunti marcando le parole:
“A chi volesse osservare che a quattro o cinque anni di distanza si possono anche riferire con maggior risalto le cose, ricorderò le mie parole del 1°giugno 1946, quando mi rivolsi al popolo delle tre Venezie:” All’unisono con tutta la Nazione, non sono insensibile al grido di dolore che giunge da tutti quelli di voi che reclamano il diritto di restare cittadini della Patria comune”
Altro che progetti Sforza per offrire Trieste alla Jugoslavia! Una domanda mi brucia le labbra e la pongo: sa Vostra Maestà che non pochi parlarono, parlano dell’improvvisa partenza da Roma dopo il referendum come di una fuga?
“Non è certo piacevole, quando ci si è sacrificati per un motivo superiore, sentir parlare di fughe. Ma forse questo è il tema preferito di coloro che non fuggono mai, semplicemente perché non amano affrontare i pericoli . Lo stesso Stalin non lasciò la capitale per recarsi a Nubiscev quando Mosca era minacciata? E Poincaré, nel 1914 di fronte ai tedeschi, e nel 1940 Lebrun, di fronte agli stessi nemici? E il Re di Norvegia, la Regina d’Olanda? E il Re di Grecia? Il Re di Jugoslavia? Solo per mio Padre e per me la parola offensiva di fuga? Essa alla fine si ritorce su chi la usa, perché le fughe morali sono peggiori delle altre. Come io intesi salvare, non me stesso ma qualcosa che è al di sopra delle , e cioè l’italianità di una città che è nel cuore di tutti dalle Alpi alla Sicilia, così l’8 settembre 1943 la partenza di mio padre e del suo governo salvò Roma da conseguenze disastrose. Si potrà discutere sulle disposizioni date e se e come vennero eseguite; ma ciò riguardava il governo e i suoi dipendenti, non la Corona. Badoglio dette a mio padre piena assicurazione che le disposizioni erano state date. Disse testualmente:”L’ai pensà mi a tut’ ( ho pensato io a tutto)”.
Che Roma sia stata favorita e non danneggiata dalla partenza di Vittorio Emanuele III e del suo governo, è fatto ormai acquisito. Alla storia. Per chi ancora ne dubitasse, sarebbe sufficiente il documento riservato (piano di Hitler Skorzeny per eliminare la Monarchia italiana ancora prima dell’8 settembre) datomi in visione da Umberto II con queste parole:
“Non è giusto che tra la Germania e l’Italia permanga un equivoco dovuto più alla politica ed ai suoi dirigenti che ai due popoli. Ho ammirato ed ammiro il genio tedesco che, però, nei suoi valori universali non ha nulla a che vedere con le ideologie nazionali e con gli odi e le guerre che esse possono scatenare. L’equivoco formatosi tra Berlino e Roma è nell’accusa, da parte dei Germanici, di un tradimento italiano, o almeno, di avere l’Italia mancato verso la fine di questa guerra all’onore militare nei confronti di Hitler. Innanzitutto, non si trattava di una guerra decisa concordemente e al tempo stesso, proseguibile in questo caso fino alle estreme conseguenze anche per noi. Si trattava di una guerra voluta da Hitler e che avrebbe dovuto rimanere la guerra di Hitler. Noi dovevamo rimanere neutrali. L’errore di Mussolini fu di non averlo capito o di averlo capito troppo tardi. Entrati in guerra, va ad onore dell’esercito Italiano se, pur con mezzi inferiori, dal 1940 al 1942-43 il cosiddetto patto d’acciaio venne rispettato con sacrifici da parte nostra gravissimi, tanto più apprezzabili dal punto di vista militare, quanto meno sentita era la guerra stessa. Da parte dei tedeschi, invece, a poco a poco si giunse ad un sempre più palese controllo, ad una sempre maggiore vigilanza, fino a dare nel 1943, la sensazione che Hitler, più che restare nostro alleato, intendesse diventare ancor prima della guerra padrone dell’Italia. Non si può pretendere da un popolo l’asservimento in nome dell’alleanza! I tedeschi in buona fede e leali, e non sono pochi, debbono ricredersi. Da questo documento risulta che il Terzo Reich, prima del cosiddetto Patto d’acciaio, si evolveva verso un intesa con l’Italia in un’atmosfera prettamente antimonarchica, senza tenere conto che l’Italia era retta a Monarchia!”
E’ vero Hitler si considerava il più forte di tutti i monarchi d’Europa, i quali, di là da ogni loro effettiva condotta in guerra, rappresentavano per lui un ostacolo da abbattere comunque . Mussolini, che nei confronti di Hitler non era il capo di uno stato ma solo il capo di un governo, poteva servire in Italia al dittatore germanico nei suoi propositi antimonarchici; e nel caso di vittoria finale , il più forte, cioè il monarca incontrastato in Europa, sarebbe stato il Fuehrer .
“Megalomania tremenda quella di Hitler, che purtroppo si manifestò per gradi, fino a che il mondo comprese, fu in allarme, e gli Stati Uniti videro nell’intervento, pur detestando la guerra e pur comprendendo il dramma dell’Italia, non soltanto una difesa dei loro stessi interessi, ma anche una missione europea di difesa delle conquiste democratiche….”