De Gasperi, prima di giungere alla fatale decisione della notte tra il 12 e il 13 giugno cercò affannosamente una soluzione di compromesso: una soluzione che permettesse al governo di attendere con le spalle al sicuro la riunione definitiva della Corte suprema, senza attuare l’irreparabile gesto di forza che (evidentemente De Gasperi se ne rendeva conto benissimo) avrebbe infirmato di fronte alla storia la legalità del mutamento istituzionale. Fu prospettata la possibilità che Umberto, in attesa delle decisioni della Corte, pur conservando formalmente il suo rango, cedesse l’esercizio dei poteri di capo dello Stato allo stesso presidente del consiglio. La cosa fu attentamente studiata al Quirinale. Ma risultò evidente che si trattava di un pericoloso trabocchetto:cosi facendo Umberto si sarebbe messo in disparte accettando praticamente te come legittima una situazione di fatto non legalizzata dalla magistratura (sarebbe stata, in altre parole, “la repubblica per decreto reale”, come disse qualcuno, il che rappresentava quanto di meglio il governo potesse sperare). La logica e il buonsenso suggerivano invece, sia al re che al governo, di attendere che la Corte suprema ultimasse con tutta serenità e libertà il suo lavoro e proclamasse l’esito del referendum: era questione di pochi giorni. Umberto ribadì questa sua ferma intenzione. ( “Chi ha la coscienza tranquilla può attendere”, disse). Il governo non seppe attendere.
Drammatica telefonata
De Gasperi, la sera dell’11, nel corso di una lunghissima e burrascosa telefonata, fece un estremo tentativo presso il ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, per convertirlo alla tesi della delega dei
poteri. Lucifero ricevette la telefonata al Quirinale, nella sala adibita a mensa per gli ufficiali in servizio. Tenne testa a De Gasperi per più di un’ora. Il tono della conversazione si fece via via sempre più vibrato. A un certo momento Lucifero disse a De Gasperi che il re non poteva cedere l’esercizio dei poteri di capo dello Stato perché così facendo avrebbe lasciato il governo arbitro della situazione nella fase più delicata e conclusiva della vertenza istituzionale.
De Gasperi rispose seccamente: Il governo si rende garante della regolarità del referendum.
Lucifero, che ormai aveva perduto le staffe, ribatté: « E’ la Corte suprema che deve giudicare l’operato del governo. Il governo non può garantire un bel niente. Le sue parole mi ricordano quelle che Mussolini pronunciò Il 3 gennaio dopo l’assassinio di Matteotti: “La questione morale la risolvo io” ».
De Gasperi, con la voce alterata dall’ira, ribatté: « Le proibisco di fare questo confronto» .
Lucifero, sullo stesso tono: «Lei non mi proibisce nulla. Io sono un libero cittadino e faccio tutti i confronti che credo».
A questo punto gli ufficiali riuniti a mensa, che per un ora avevano seguito con il fiato sospeso, attraverso le battute di Lucifero, la drammatica telefonata, scoppiarono in un fragoroso applauso, il cui fragore dovette giungere all’orecchio di De Gasperi, che poco dopo mise termine alla conversazione divenuta spiacevole.
Caduta la speranza di avere la repubblica per decreto reale il governo, la notte fra il 12 e il 13 giugnopassò all’azione. Una dichiarazione del ministro Bracci sul presumibile atteggiamento degli alleati di fronte a un gesto di forza del governo servì a dissipare le ultime incertezze (e la paura dei comunisti): “E’ tempo di agire. I rischi ci sono, ma non così gravi come si poteva pensare. Da sondaggi fatti in queste ultime giornate, ci risulta che gli alleati, se anche hanno simpatia per la Corona non intendono esporsi fino a sposarne la causa, coi pericolo di compromettere i loro interessi. In fin dei conti sperano in una repubblica più disarmata e arrendevole della monarchia al momento della firma del duro trattato di pace che ci stanno preparando.E’ questo che sta loro a cuore. Durante la giornata alcuni di noi hanno fatto osservare agli alleati che la repubblica non ha legami col passato e che, fuori del ginepraio dei nazionalismi, guarda al futuro consapevole anche delle colpe italiane. Questi argomenti, agli alleati, che in fin dei conti sono mercanti, hanno fatto un certo effetto. Dunque possiamo avere fiducia che se anche faranno il viso contrito al Savoia che cade, non muoveranno un dito in suo favore .
Il Re spodestato
Nenni approvò: Benissimo: decisione immediata. Solo Cattani si oppose: “Conoscete il mio pensiero: il mio partito si è pronunciato contro i colpi di testa.
Nessuno gli diede retta. Nenni, Bracci e Molè ( quest’ultimo sempre pronto ad “accodarsi”) si ritirarono per compilare l’ordine dei giorno con cui il governo proclamava « l’instaurazione di un regime transitorio durante il quale, fino a quando l’assemblea costituente non abbia nominato il capo provvisorio dello Stato, l’esercizio delle funzioni di capo dello Stato medesimo spetti ope legis al presidente dei consiglio in carica.
I tre rientrarono soddisfatti. Ora non restava che approvare l’ordine dei giorno e il colpo era fatto, il re era spodestato e ridotto al rango di un qualsiasi cittadino.
Nenni: « Tutto è a posto, conforme alla legge e alla volontà del popolo. Se per avventura l’ex re non vi si inchinasse, si porrebbe fuori legge: allora sarà più che giusto mettergli le mani addosso.
Bracci: « La partita è decisa: Umberto non può più esercitare le funzioni di capo dello Stato .
Corbino: In definitiva la questione riguarda soprattutto la persona di De Gasperi: vorrei sapere se si rende conto della responsabilità che si assume con questo ordine del giorno .
De Gasperi: « Se il consiglio vuole così, approviamo pure l’ordine del giorno ».
Si passò al voti. Soltanto Cattani votò contro. Pochi altri ministri si limitarono ad astenersi. L’ordine del giorno fu approvato.
Umberto di Savoia, durante i nostri colloqui a Cascais, ha avuto occasione di raccontarmi personalmente come trascorse la serata del 12 giugno, quale era il suo stato d’animo, come apprese la notizia che il governo aveva attuato il “colpo di stato” approvando l’ordine del giorno fatale.
Sapeva che quelle erano ore decisive, ma era, come al solito, calmo e sereno. Molti di coloro che gli furono accanto in quei giorni drammatici mi hanno detto che non lo videro mal in preda a un’ombra di orgasmo o di paura o di emozione. Anche i sentimenti che a volte non seppe nascondere dei tutto, la malinconia e l’amarezza, non oltrepassarono mai 1 limiti di una sobria dignità. Il suo contegno impassibile fu scambiato da qualcuno per aridità o addirittura per orgoglio sprezzante. Durante i colloqui a Cascais, benché mai si sia lasciato andare a confidenze o a sfoghi personali, ho avuto modo di constatare, da mille piccole sfumature, come la sua suprema indifferenza e freddezza di fronte a qualsiasi evento non sia affatto dovuta a mancanza di, calore umano (è, al contrario, dotato di acuta sensibilità ), ma frutto di un rigido autocontrollo e di una profonda serenità interiore che nessuna sventura può incrinare. Un suo antico collaboratore mi ha detto: «Tutti noi che gli fummo accanto in quelle ore terribili dél giugno 1946 vedemmo rivivere in lui la grande anima di Carlo Alberto a Novara».
La sera del 12 giugno Umberto volle trascorrere alcune ore serene e riposanti, lontano dalla tensione del Quirinale, in un ambiente “borghese” e cordiale, conversando con amici, alla buona, senza i fastidi dell’etichetta e del cerimoniale. All’e 20 incaricò il generale Graziani, mastro di cerimonie, di telefonare a casa del giornalista Luigi Barzini junior (l’attuale deputato liberale).
«Questa sera verrei a cena da voi con un, amico », disse Graziani.
« Benissimo, mia moglie e io vi aspettiamo » rispose Barzini, che aveva capito perfettamente chi fosse l’amico.
Altre volte il Re aveva trascorso la serata in incognito a casa del giornalista, al quale lo legava una vecchia amicizia.
« Erano », mi ha detto Umberto, « serate di evasione dall’aridità e tristezza dei rapporti convenzionali, di fuga verso l’intelligenza e i valori umani. Non si parlava, grazie al cielo, di congiure, di rancori, di violenza, di ipocrisie e di viltà, ma di buoni libri, di buona pittura, o anche, perché no?, di buona cucina. Una felice battuta di spirito era assai più apprezzata di una frase storica ».
A proposito della sua amicizia con Luigi Barzini, Umberto mi ha raccontato un episodio che, indirettamente, offre una singolare testimonianza su quelli che furono i rapporti fra il principe ereditario e il fascismo.
« Un giorno del 1942 », mi ha detto, «ispezionai una batteria costiera presso Monte Argentario. Sapevo che in una villa vicina viveva, sorvegliato speciale, il giornalista Luigi Barzini junior. Prima di partire mandai il capitano della batteria stessa a portare i miei saluti a Barzini. In seguito seppi che un rapporto segreto era stato inviato immediatamente a Mussolini, per informarlo che il principe di Piemonte e il sorvegliato antifascista Barzini avevano avuto un misterioso e allarmante colloquio di tre ore mentre la strada era bloccata da ufficiali fedelissimi”.
Umberto fa caricature
Il 12 giugno la signora Barzini era a letto con una gamba ingessata. Pochi giorni prima, mentre era a bordo della sua “topolino” era stata investita da una jeep alleata. Umberto e il generale Graziani giunsero alle 20,30, in incognito. In casa del giornalista trovarono anche il senatore Bergamini. Poiché la signora non poteva alzarsi, fu preparata una cena fredda, alla buona, senza cerimonie, nella sua stanza da letto, su un tavolinetto da bridge. Si parlò, Inevitabilmente, anche della situazione politica, ma serenamente e quasi con distacco.
« Malgrado tutto» disse Umberto, «io continuo a essere fiducioso che la parola decisiva sia lasciata alla Corte suprema. Non posso credere che il governo voglia sostituirsi alla magistratura. Da parte mia, qualunque sia il verdetto della Corte, mi riterrò pienamente appagato: e soprattutto spero si ritengano appagati gli undici milioni di italiani che secondo il ministro Romita, bontà sua, risultano monarchici.
Umberto, che ha spiccato il senso dell’umorismo (anche se ne fa sfoggio con misura e soltanto in circostanze appropriate), divertì commensali mimando alcuni personaggi che nei giorni precedenti erano andati da lui per “condolersi”, con eccessiva premura, per la sua imminente partenza, personaggi sulla cui sincerità aveva motivo di dubitare. Tuttavia, dopo la satira, si preoccupava di trovare per ognuno un’attenuante, di dire un parola di indulgenza e simpatia. Di lui Luigi Barzini ebbe in seguito occasione di dare questo giudizio: «Era l’uomo assolutamente privo di faziosità che occorreva all’Italia dopo tanti disastri provocati dalla faziosità. Nessuno degli uomini politici che lo hanno combattuto e calunniato con tanto accanimento può essergli paragonato».
Verso mezzanotte Barzini fu costretto ad assentarsi per andare a giornale presso il quale lavorava Umberto si intrattenne a conversare con la signora e con gli altri due commensali. Può forse sembrare una gaffe madornale invitare a cena il re e poi piantarlo in asso e uscire di casa. Ma era lo stesso Umberto che per le sue visite a Barzini aveva posto come rigida condizione di non intralciare il suo lavoro.
Quando giunse al giornale Barzini trovò l’ordine del giorno del governo, diramato alla stampa pochi minuti prima. Lo lesse e commentò: « Piccolo colpo di Stato ». Telefonò a casa e pregò la moglie di informarne ‘l’amico” senza reticenze. Umberto vide la signora impallidire al telefono. Comprese immediatamente che qualcosa di grave era accaduto. Disse sorridendo: «Parli pure, signora: qualcosa di nuovo, vero?» . Apprese così che il governo lo aveva deposto dal trono, Confortò la costernata signora Barzini che aveva avuto il non piacevole compito di dargli la notizia. Non smarrì neppure per un istante la calma. Tanto è vero che pochi minuti dopo quando Lucifero gli telefonò per dargli a sua volta la notizia e gli chiese se voleva vederlo quella notte stessa e discutere l’accaduto, rispose: «No, non c’è motivo: ci vediamo domattina ».
La mattina del 13 giugno Umberto e il ministro della Real Casa esaminarono insieme la situazione. Lucifero disse: «Esistono quattro possibilità. Primo: revoca immediata del governo che ha agito illegalmente; nomina di un secondo governo, con limitati compiti di ordinaria amministrazione, il quale olovrà riconoscere alla Corte di Cassazione tutti i poteri necessari, senza limiti di tempo affinché possa indagare sulla regolarità della preparazione e dello svolgimento delle elezioni, degli scrutini e dei computi; qualora dall’indagine risultasse la piena regolarità del referendum, il re prenderà la via dell’esílio, ma se l’inchiesta porterà alla conclusione opposta, allora si dovrà ripetere il referendum. Secondo: considerare la situazione immutata, Ignorando il colpo di Stato del governo, e attendere il verdetto della Corte. Terzo: protestare contro la condotta illegale del governo e restare al Quirinale fino al verdetto della Corte. Quarto: protestare e partire subito .
Il Re disse: «Penso che si debba innanzitutto scartare la prima soluzione che significherebbe guerra civile e passare all’esame delle altre ».
Ci furono, nelle ore successive, febbrili consultazioni fra i più autorevoli consiglieri della Corona. Tutti erano d’accordo sulla illegalità del gesto compiuto dal governo. Ma i pareri erano contrastanti su come avrebbe dovuto agire il sovrano.
Ci sarà qualche morto
La posizione di estrema intransigenza fu assunta da Roberto Lucifero (da non confondere col ministro della Real Casa, Falcone Lucifero, di cui è cugino) e da Enzo Selvaggi che dichiarò: «Non c’è alternativa: solo resistere con ogni mezzo. Il Re non deve partire. Dobbiamo passare immediatamente alla controffensiva. Nessun gesto illegale da parte nostra. Il re si muove su un terreno di assoluta legalità se indirizza un energico appello al Paese denunciando il colpo di Stato del governo. Subito dopo il governo ricorrerà alla violenza, è facile prevederlo. Forse ci sarà anche un Intervento di Tito su Trieste. Gli alleati, per una elementare questione di prestigio, non potranno restare con le mani in mano. Avremo la guerra civile e ci sarà qualche morto. Ma la responsabilità non sarà nostra: ricadrà interamente sul governo, Per ciò che mi riguarda io sono pronto a partecipare di persona alla lotta cruenta. Comunque la guerra civile sarà di breve durata: la legalità sarà presto ristabilita. Noi possiamo contare 70 mila carabinieri fedelissimi, su tutto l’esercito, sulla marina, sulla guardia di finanza. Togliatti ha parlato in consiglio di 150.000 partigiani di estrema sinistra. Paragonati alle nostre forze non sono un grosso ostacolo. La nostra legittima reazione non potrà essere stroncata ».
Furono poi riferite al Re le opinioni espresse dai diversi consiglieri. Gli furono presentati anche piani concreti di azione. Qualcuno lo consigliò di rifugiarsi a Napoli con i suoi collaboratori. La popolazione di Napoli era in grandissima maggioranza di fede monarchica e pronta a qualsiasi sacrificio per difendere il re: lo aveva dimostrato nei giorni precedenti, con i morti e,feriti lasciati sulle piazze durante le manifestazioni sanguinosamente represse dalla polizia ausiliaria. Da Napoli il re avrebbe lanciato un vibrante proclama al Paese e alla testa dei suoi fedeli avrebbe intrapreso la marcia verso il nord.
Umberto troncò bruscamente; quella proposta esclamando: “Assurdo: la mia casa ha unito l’Italia e io dovrei dividerla creando un nuovo regno delle Due Sicilie?”. Decise di partire quel giorno stesso. So bene », mi ha detto Umberto a Cascais, che la mia rinuncia amareggiò e deluse molti italiani. So che la mia partenza sembrò a qualcuno troppo affrettata: quasi un segno di debolezza o, peggio, di scarsa convinzione circa la legittimità della causa monarchica. Poco dopo la mia partenza un mio caro, e fedele collaboratore espresse un giudizio che, quando mi fu riferito, mi addolorò profondamente: “Umberto ha sbagliato: troppo legalitario, con gente priva di scrupoli; se ci fosse stato ancora il vecchio re non avrebbe ceduto alla violenza, avrebbe resistito”. Ancora oggi, a tredici anni di distanza, ricevo lettere accorate di italiani che mi chiedono perché volli partire lasciando partita vinta al governo repubblicano. Ebbene, devo rispondere in tutta coscienza che non avevo altra scelta. Al generoso Selvaggi sembrò che “alcuni morti” (e la sua stessa vita) fossero un prezzo accettabile per salvare la Monarchia. Ma a me sembrò un prezzo mostruoso. E non è neppure pensabile che esistesse una minima possibilità di respingere la decisione del governo senza provocare spargimento di sangue. Né d’altra parte potevo restare un attimo di più in Italia come privato (e non certo gradito) cittadino, ché a tale rango mi aveva praticamente posto il governo con il suo ordine del giorno. Non mi restava che partire immediatamente, denunciando il sopruso in termini netti per la verità storica, ma nello stesso tempo sciogliendo dal giuramento di fedeltà alla Corona tutti coloro che lo avevano prestato, per liberarli dal dovere morale di insorgere. E così feci, con innegabile amarezza, ma senza esitazioni. Oggi, nella stessa situazione, non agirei diversamente ».
Fu una condanna postuma
Partito il Re, la Corte di Cassazione fu costretta a capitolare di fronte al fatto compiuto. La piazza era in tumulto e il governo premeva. Togliatti, che (non bisogna dimenticarlo) era ministro della giustizia, fu molto indaffarato in quei giorni. Mettere in discussione l’ormai proclamata vittoria repubblicana significava suscitare il caos. Era una responsabilità spaventosa. Tre consiglieri della Corte suprema, che prima della partenza del re erano considerati sicuramente favorevoli al ricorso Selvaggi, manifestarono alla fine l’opposto parere. Furono tre, appunto, i voti decisivi. Il 18 giugno la Corte si riunì e respinse il ricorso Selvaggi con 12 voti e 7 favorevoli. Il procuratore generale, Pilotti, pronunciò una forte requisitoria favorevole al ricorso Selvaggi, affermando che « non solo la lettera della legge impone di interpretare il termine elettori votanti nel senso dì elettori che hanno comunque compiuto le operazioni di votazione, non solo i principi del diritto, ma anche e soprattutto lo spirito della legge, se la legge mira, come è, a costituire un sistema di garanzia per la formazione della volontà collettiva».
I consiglieri si alzarono uno dopo l’altro, in ordine di anzianità e di prestigio, per la proclamazione di voto. Il primo presidente, Pagano, il cui parere era moralmente il più autorevole e il più atteso, si pronunciò per ultimo. Ormai l’esito non poteva mutare. I voti contrari al ricorso Selvaggi erano già dodici, mentre soltanto sei erano quelli favorevoli. Pagano, pur sapendo che col suo gesto di nessun valore pratico andava incontro a molte ostilità, volle aggiungere il proprio voto ai sei della minoranza.
La Corte proclamò quindi frettolosamente le cifre definitive: 12 milioni 717.923 voti validi per la repubblica, e 10 milioni 719.284 voti validi per la monarchia. Risultavano nulli 1.498.136 (un’enorme montagna di schede annullate sulle quali non fu esercitato un qualsiasi controllo).
Romita ha scritto nel suo libro che se anche la Corte avesse deliberato secondo la tesi del ricorso Selvaggi, la repubblica avrebbe vinto ugualmente, sia pure con una maggioranza più esigua. Tale maggioranza, In effetti, si sarebbe ridotta a poco più di duecentomila voti. Ma l’ammontare delle schede nulle fu comunicato soltanto dopo la partenza del re, né fu possibile esercitare un serio controllo il ministro degli interni era praticamente l’arbitro della situazione.
«Ad ogni modo», mi ha detto Umberto, «qualsiasi illazione o discussione sulle cifre del referendum é inutile e oziosa, poiché si tratta di materiale su cui non è stato né sarà mai esercitato un controllo approfondito e sereno. Non è nelle cifre che va ricercata la prova della illegalità del mutamento istituzionale, ma nel colpo di Stato compiuto dal governo la notte fra il 12 e il 13 giugno. La prova inconfutabile che si trattò di un colpo di Stato non è desumibile da documenti di parte monarchica, ma proprio dalla Gazzetta ufficiale della repubblica che, pubblicando il decreto in data 1 luglio 1946 sul passaggio del poteri di capo dello Stato da De Gasperi a De Nicola, precisò che De Gasperi deteneva tali poteri dal 18 giugno, cioè dal giorno in cui la Corte emise la deliberazione definitiva. Ciò significa che il governo si rendeva conto perfettamente di avere compiuto la notte fra il 12 e il 13 giugno un gesto illegale. Soltanto il 18 giugno la Corte suprema avrebbe legalizzato i suoi poteri. Ma quale valore giuridico può essere attribuito a una decisione presa quando già da cinque giorni esisteva una situazione di fatto non più revocabile se non a prezzo di sanguinosi conflitti? La proclamazione fatta dalla Corte suprema il 18 giugno ha tutto l’amaro “pare d’una condanna capitale “postuma”, pronunciata dal giudici cinque giorni dopo che il reo è stato sommariamente giustiziato».
Sfiorato dai fulmini
Umberto lasciò l’Italia poco dopo le 16 dei 13 giugno. La partenza fu predisposta in poche ore: né il governo italiano né gli alleati furono preventivamente informai della destinazione. Tutto fu predisposto, comunque, perché la partenza avvenisse con una certa solennità. L’aereo personale del Re un “S. 75” agli ordini del capitano Pivetti, risultò inutilizzabile a causa dei motori in pessime condizioni. Occorreva un altro apparecchio. La scelta cadde sul “S.M.95” comandato dal capitano Lizzani.
Pivetti protestò: «Io e il mio equipaggio siamo addetti alla persona del sovrano: spetta a noi accompagnarlo in questa dolorosa circostanza. Siamo pronti a passare sul “S. M. 95″».
Lizzani reagì (ed ebbe partita vinta): «Non possiamo cedere ad altri l’apparecchio. La sorte ci ha riservato un onore al quale non rinunceremo per nessuna ragione».
Poco prima della partenza giunsero al Quirinale tre ufficiali d’aviazione, trafelati, in preda a grande orgasmo, Al generale Cassiani, aiutante di campo, dissero: – Abbiamo saputo che il re si accinge a partire con l’apparecchio dei capitano Lizzani. Per carità, non parta. Sta per cadere in un tranello infame. Non si fidi dell’equipaggio. Si tratta di elementi repubblicani che fanno parte di una congiura ordita da alcuni membri del governo. A tradimento porteranno il Re a Milano e lo consegneranno ai partigiani comunisti, che ne faranno giustizia sommaria, it tutto predisposto; si tratta di una macchina zione diabolica.
Cassiani riferì la cosa a Umberto che allargò le braccia e disse: «Io ho la coscienza a posto, e chi ha la coscienza a posto non ha nulla da temere. Del resto è assurdo attribuire a un ufficiale italiano simili bassezze». Non si ingannava.
La sensazionale rivelazione era una assurda calunnia.
Alle 15 i corazzieri si schierarono nel cortile dei Quirinale. Quando Umberto comparve, il loro comandante Riario Sforza, ordinò per I’ultima volta: Guardie del Re, saluto al Re! ». Per l’ultima volta i corazzieri gridarono: «Viva il Re!».
Stavano rigidi sull’attenti e quasi tutti avevano il viso solcato dalle lacrime. Umberto abbracciò Riario Sforza e si allontanò in fretta per non essere sopraffatto dalla commozione. Sulla macchina che lo portò a Ciampino presero posto anche il ministro Lucifero e il generale Infante, col gagliardetto sabaudo. A Ciampino Umberto fu accolto e applaudito a lungo da una folla commossa, tanto che più tardi un ufficiale americano disse a Lucifero: «Che strana cosa: un Re va in esilio e il suo popolo gli batte le mani».
Umberto abbracciò uno dopo l’altro i suoi fedeli collaboratori (i quali, più tardi, rincasando, constatarono che, malgrado le mille preoccupazioni e incombenze di quella febbrile giornata, il Re aveva trovato il tempo di mandare a ognuno di essi uno affettuosa lettera di saluto e un piccolo oggetto personale per ricordo. Lo videro salire a bordo con commozione contenuta. Alle 16,09 l’apparecchio si staccò dal suolo. Solo allora le poche persone che accompagnavano il Re in esilio videro delinearsi sul suo viso un’ombra di disperazione.
Durante i nostri colloqui a Cascais Umberto ha avuto occasione di rievocare quel volo che, per le condizioni atmosferiche, ebbe momenti di estrema drammaticità.
«Sul Mediterraneo», racconta, «trovammo un tempo infernale. L’apparecchio, preso in mezzo all’uragano, più volte sfiorato dai fulmini sembrava destinato a precipitare da un istante all’altro. A un certo momento il pilota mi informò che avevamo una probabilità su dieci di arrivare sani e salvi in Portogallo: propose di tentare un atterraggio di fortuna in Sardegna. «Sbaglio, o la Sardegna fa parte del territorio italiano?», gli domandai, «Sì, fa parte dei territorio Italiano», balbettò. Allora niente da fare, comandante: bisogna proseguire, perché lei ha la disgrazia di avere a bordo un passeggero speciale, che non può, per nessuna ragione, rimettere piede sul suolo italiano». «Si rischia di precipitare». “Mi dispiace per tutti voi, ma io devo proseguire ad ogni costo. «Quand’è così, che Dio ce la mandi buona». Il pilota non fiatò più: proseguimmo in mezzo all’uragano. Confesso che, se fosse stata in gioco soltanto la mia vita e non quella dei miei compagni di viaggio, avrei desiderato con tutto il cuore che un fulmine schiantasse davvero l’apparecchio. Atterrammo verso sera all’aeroporto di Barcellona. Non eravamo attesi. Accorsero le sentinelle coi fucili spianati. In attesa di accertamenti ci tennero per circa due ore prigionieri nell’apparecchio. Poi l’equivoco fu chiarito. Giunsero le autorità spagnole, che furono di una cortesia indimenticabile. Quella sera stessa fui invitato a un banchetto in mio onore. Il giorno dopo proseguimmo per il Portogallo».