Salgo le scale di legno lungo le quali corrono alte scansie di libri, alternate da quadri austeri. Da oggi, Umberto II mi riceverà – caso raro, mi dicono- nel suo studio privato. Il locale è raccolto e luminoso e confina con la grande biblioteca entro la quale sono allineati 24000 volumi. Lui , in pratica, vive qui, passa ore tra questi libri, spesso si fa servire i pasti in biblioteca. davanti a questo nido ovattato, si finisce col chiedersi che effetto possano produrre, su un uomo, 33 anni di ritiro in una gabbia d’oro, fatta apposta per riproporre incessantemente, come in un gioco di specchi, la sequela dei ricordi. Qui ci sono il tempo, il silenzio, la documentazione adatti: chissà quante volte il film della vita italiana è stato incessantemente riproiettato nella mente di Umberto, col sottofondo di quell’incessante colonna sonora: le onde che sbattono sugli scogli di Boca do Inferno. Chiedo: “Fin dove arrivano, andando a ritroso, i suoi ricordi?”
“Cominciano esattamente dal 1907, cioè da quando avevo tre anni. Ricordo nitidamente il battesimo di mia sorella Giovanna, a Roma. Quella mattina mi svegliarono presto, mi vestirono, mi strigliarono a dovere. Ricordo la cappella, gli ospiti e lo strascico di una dama sul quale inciampai incautamente. Di quel periodo, ricordo anche i primi soggiorni a Racconigi e le visite che ci faceva, arrivando da Moncalieri, la principessa Clotilde, che era stata sposata con Girolamo Bonaparte. Faceva vita ritirata e si vestiva tutta di nero secondo le usanze d’allora ( a quel tempo le donne anziane si vestivano da vecchie, mentre oggi sanno come conservarsi giovani scegliendo abiti vivaci). La principessa arrivava in carrozza ed io ho ancora nelle orecchie quel rumore caratteristico delle ruote sulla ghiaia; scendeva lentamente, mentre i palafrenieri tenevano fermi i cavalli“.
Si dice che i suoi migliori ricordi d’infanzia siano legati proprio a Racconigi.
“Evidentemente, essendo il luogo delle vacanze. Di quegli anni ricordo ancora, nitidamente, l’inizio della guerra di Tripoli: eravamo fuori in carrozza e qualcuno ci raggiunse per dirci di rientrare. Rivedo poi, proprio come in una sequenza cinematografica, la visita a Racconigi dello Zar. Soprattutto la vigilia del suo arrivo, perché passai ore a guardare un reparto di bersaglieri che provavano la sfilata nel viale davanti al castello, quel bel viale con le piante di aranci. Ero anche affascinato da un grande rullo compressore che andava su e giù sul piazzale, livellandolo a dovere. Dello Zar ricordo perfettamente le mani inanellate: potrei riconoscerlo ancor oggi, dalle mani. Poi la sua giubba rossa e la sua voce: parlava francese, con noi, ma appena poteva preferiva l’inglese. Dal suo paese aveva portato per noi ragazzi un giocattolo gigantesco, un intero villaggio russo riprodotto in legno in dimensioni ridotte: relativamente ridotte, visto che le costruzioni erano alte quasi mezzo metro . C’erano la chiesa, la casa del pope, le isbe, i recinti. Tutto era contenuto in una grande quantità di casse che furono portate in uno dei saloni del castello, dove vennero aperte alla presenza di tutti. Alcuni di quegli altissimi cosacchi che l’Imperatore si era portato appresso, si misero all’opera per montarlo. Ricordo che lo Zar ci disse: “Vi ho portato questo dono perché impariate a conoscere la Russia e sperando che un giorno verrete a visitarla”.
C’è poi andato in Russia?
“Si, da turista, nel dopoguerra. Sono stato a Yalta e ho visitato la sala dove i rappresentanti delle nazioni vincitrici hanno deciso la spartizione del mondo. Da una guida mi sono fatto indicare, ad uno ad uno, i posti che occupavano. Nel palazzo ho anche visitato la camera da letto che era stata dello Zar; sapevo che, dietro una porta, egli si era fatto mettere un altare e chiesi alla guida se quella porta poteva essere aperta e se l’altare c’era ancora. Scppiò un putiferio: mi domandarono quando ero già stato in quel luogo, come facevo a conoscere quei particolari…”
Quando cominciò la sua vita “pubblica”?
“Già da ragazzo, proprio ai tempi della guerra di Tripoli, avevo otto anni, Andavamo a visitare i feriti rimpatriati che erano ricoverati nella reggia di Caserta. Per arrivarci usavamo il treno perché le strade di laggiù, a quel tempo, erano molto disagevoli; portavamo doni, aiuti. Ricordo che erano visite che mi impressionavano, anche perché tra i ricoverati c’erano i primi ascari. Un incontro analogo si ripeté, singolarmente, molti anni dopo, al tempo della mia luogotenenza quando visitando le zone liberate, al Sud, scoprii un campo di nostri prigionieri di colore. Diedi ordine che venissero rimpatriati alle loro case, ma più tardi, quando quegli avvenimenti sembravano già lontani, qualcuno si accorse che i prigionieri erano spariti e ci fu un inchiesta: dovetti testimoniare per iscritto che il rimpatrio era stato ordinato da me“.
Terminato il ginnasio lei fu iscritto al Collegio militare di Roma, a Palazzo Salviati. Fu quello il momento in cui visse da studente qualsiasi.
“No perché non ero un interno, ma studiavo a casa con i precettori e al collegio mi recavo solo per le lezioni scientifiche. Ci andavo accompagnato. Ricordo che avevamo le aule all’ultimo piano e che , al suono della campanella del finis, uno stuolo di ragazzi si precipitava vociando giù dalle scale . Io ovviamente, scendevo in coda con compunzione. Quando c’era l’intervallo per la ricreazione, tutti si precipitavano in cortile a sfogare correndo la voglia di muoversi. A me toccava passeggiare lentamente sotto i portici, il precettore a destra, un ufficiale a sinistra, mentre il primo mi leggeva ad alta voce le motivazioni delle medaglie d’oro; una lettura sacrosanta, intendiamoci, ma Dio sa se in quel momento non avrei preferito giocare con gli altri“.
Erano quelli i tempi in cui , con l’inizio della guerra mondiale, del 1915, ricominciarono le sue visite agli ospedali e, questa volta anche al fronte.
“Si , andavo spesso con mio padre, spesso vicinissimo alle prime linee. MIo padre sembrava instancabile. Resisteva alla fatica più di me, che avevo dodici o tredici anni. Fu allora che conobbi molti generali che poi avrei rincontrato più avanti in altre occasioni, ma a quel tempo non avevo interesse per loro. Ricordo la guerra, i feriti e il freddo: viaggiavamo sempre in macchina scoperta ed io ero spesso intirizzito. Quando il re doveva parlare con i generali, io restavo in compagnia degli aiutanti di campo“.
Forse ricorda come più allegri i momenti dell’università?
“Le università le ho conosciute quasi tutte: di tanto in tanto mi davano una laurea ad honorem ed io andavo a riceverla. Ricordo come si divertivano gli studenti, ricordo che mi preparavano il papiro e che cantavano quelle loro canzoni allegre e un po’ sboccate che mettevano a disagio i miei accompagnatori. Particolarmente ricordo una di questa a Bologna…“
E intanto il fascismo prendeva piede anche nelle università
” Il fascismo come tutte le altre questioni politiche, mi “doveva” essere estraneo: la tradizione di Casa Savoia voleva che il principe non si immischiasse. Ricordo i malumori che scoppiarono in famiglia quando cominciò a circolare una cartolina sulla quale, grazie ad un fotomontaggio apparivo in camicia nera. Non per il fatto in sé o perché il partito si fosse appropriato della mia immagine, ma perché io non dovevo fare politica“.
Il periodo tra il 1924 e il 1930 durante il quale lei visse a Torino, da scapolo, è comunemente indicato come quello più allegro della sua vita.
“Si, ero più libero, non avevo il peso degli studi, c’erano gli amici. Ma non ero in preda a quella pazza gioia che mi venne attribuita da qualche biografo: erano solo anni più sereni. Ho letto anche che, quasi a fare da contrappeso alle mie ore di divertimento, sarei stato colto, di tanto in tanto, da crisi mistiche. E’ una notizia buffa oltre che falsa. Noi siamo cattolici romani, siamo stati educati così: era ovvio che consentendolo gli impegni, io andassi a Messa la domenica; ho sempre rispettato questa abitudine, anche quando, come luogotenente, iniziavo le udienze alle sette del mattino. In quei casi, mi alzavo presto e i miei aiutanti brontolavano chiedendosi perché mai, mentre tutti andavano a Messa alle undici, noi si dovesse correre all’alba. Qualcuno di loro combatteva dure lotte col sonno sui banchi, davanti all’altare. Detto questo, non c’e’ altro: non ho mai avuto crisi mistiche, né vocazioni monastiche, non sono mai stato bigotto, neppure nei momenti di duro sconforto”.
Per esempio?
“Per esempio quando ci giunse la notizia che mia sorella Mafalda era morta in un lager tedesco. Ricordo che avevamo saputo della sua detenzione da un reparto di truppe canadesi. Poi la cosa fu confermata da sei marinai italiani che , non si sa come, erano finiti nello stesso campo, riservato ai prigionieri politici. Raccontarono di aver più volte architettato piani per liberarla, ma con i tedeschi questi piani rimanevano allo stadio dell’ideazione. Poi, le conferme venero anche ufficialmente, e si seppe della sua morte tramite un rumeno, poi tramite la Croce Rossa e il Vaticano. Ricordo che subito dopo andai a trovare la madre di mio cognato, il Principe d’Assia, anche per rivedere i miei nipoti. La residenza di Kumberg era stata occupata dai soldati americani e l’anziana signora viveva nella casetta del giardiniere assieme al personale rimasto. Mio cognato ebbe dei problemi per lungo tempo, fu processato perché aveva ricoperto la carica di Gauleiter dell’Assia. Una commissione venne anche qui, a Cascais, per raccogliere informazioni”.
Ha nostalgia di quegli anni torinesi? Di quel periodo un po’ dannunziano?
“Ho nostalgia dell’Italia, più che di quel periodo particolare. Non ero dannunziano, anche se conoscevo bene il poeta, che trovavo per molti versi affascinante. Ho conservato a lungo le sue lettere, che ora ho donato al Vittoriale. Ma di D’Annunzio ricordo soprattutto una caratteristica: la disinvoltura e l’eleganza con la quale, nel giro di poche ore, diceva tutto e il contrario di tutto, senza timore di cadere in contraddizione.
Lucio Lami – “Il Giornale” – 4 novembre 1979