Intervista di Lamberti Sorrentino 1966
Questa intervista è stata pubblicata nell’Aprile del ’66 dal settimanale “IL TEMPO” in forma completa e dal quotidiano “La Nazione” in una versione lievemente più breve. Quella che segue è la versione completa.
L’Italia è per Umberto di Savoia in esilio come una casa lontana dove durante nove secoli nacquero lui e i suoi maggiori, e dalla quale, venti anni fa, venne estromesso da oppositori a seguito di un giudizio in parte controverso. Gli è vietato mettere piede in quella casa, tra le cui antiche mura riposano le sue memorie e i suoi affetti; ma tutto quanto avviene dentro di essa lo chiama, di fronte a se medesimo prima che agli altri, direttamente in causa; e senza una sola volta palesare la sua amarezza, o risentimento, per quegli oppositori che lo fecero espellere, interviene in ogni azione che si svolge nella casa, sia che si sposti un quadro, o si pianti un’aiuola, o si festeggi una nascita, o si pianga un morto; interviene – con l’animo di chi dona senza chiedere – mediante consigli, auguri, condoglianze, e nel limite dei suoi mezzi limitati propri dello estromesso,, con qualche contributo, o donazione.
Cascais, Aprile
Questo io, dico a Umberto nella sua Villa, a Cascais, ed aggiungo: « Deve esserle costato fatica tenere tale linea di condotta, specie quando anni fa un Partito monarchico potente sollecitava il Re in esilio di prendere posizione, e agire, scopertamente o clandestinamente, a favore di un ritorno che non escludeva i mezzi estremi; ritorno, cioè, nella mente dei meno avveduti, e di qualche scalmanato, che ammetteva lo spargimento di sangue».
Dice Umberto: «Se l’educazione ricevuta dalla mia famiglia, e in specie da mio padre, per fare di me un Re, avesse consentito una tale eventualità per conservare o riconquistare la Corona, come usava prima della Democrazia, cioè con mezzi violenti, lo avrei fatto, o tentato, il 2 giugno. Consigli di tal genere, com’era ovvio, ne ebbi il 2 giugno 1946, in quelle che rimangono le ore fatali della mia vita di Re; non nella mia vita d’uomo, o di italiano, si badi, che da uomo, e da italiano vissi ore dense di destino prima del 2 giugno, e posso continuare a viverne dopo; ogni volta, cioè, che la nostra patria ha suonato, o suona le sue campane, a morte come fu per la guerra infausta, o a stormo com’è avvenuto in occasione di una rinascita economica per designare la quale si è usata la parola miracolo. Una sola pena: che quel miracolo sia avvenuto mentre io non c’ero, o almeno ero lontano ».
E’ vestito con un completo blu ad un petto, camicia bianca, e cravatta blu. E’ asciutto e alto, ha le medesime misure di una volta, e non mostra più di cinquant’anni. Va ad un pranzo, è spessissimo invitato, in questa Lisbona dove lo chiamano, semplicemente, “O Rey”, cioè: il Re. Gliel’ho detto arrivando, che ho avuto la sorpresa di sentirlo chiamare così, sia dalla gente di Cascais – questo paesino lindo e turistico a venti chilometri da Lisbona – sia a Lisbona stessa. A Cascais è avvenuto mentre in auto percorrevo la strada costiera, e cercavo Villa Italia, una “specie di castello”, mi avevano detto. Immaginavo, perciò, una vistosa e imponente costruzione, e vi passavo, e ripassavo, davanti senza individuarla. Perciò, un paio di chilometri oltre l’abitato, dove la costiera denudandosi dell’asfalto si esaurisce nel bosco, ho domandato a due passanti, prima, e poi, tornato sui miei passi, ad un agente: «Aonde està Villa Italia? », e loro: « A’ casa do Rey? O Rey morra là », il Re abita là. Se ci fosse un solo Sovrano in esilio, in Portogallo, la cosa sarebbe ovvia, senza un particolare significato. Ma nel solo tratto da Lisbona a Cascais, passando per la lussuosa Estoril dove c’è anche il Casinò, è quello che i francesi chiamano un parterre de Rois, un prato di Re, ex-Re, aspiranti Re, Regine, figli e figlie e nipoti di Re e Regine. E’ un tratto quello, ove se potessero, costoro, mettere sul capo la corona che gli assegnerebbe il Diritto Divino, non si farebbero quattro passi senza doversi tirare indietro per fare l’inchino di Corte. Che “O Rey”, fra tanti, sia il nostro, vuol dire semplicemente che l’ex Re d’Italia continua a vivere con dignità di Re. Dico dignità, non sfarzo. Ché Villa Italia è modesta, il parco a trapezio allungato che lo cinge è breve, e un poco abbandonato; la cameriera che incontro in anticamera ha il camice nero e il grembiulino bianco; e la medesima targa con sopra scritto Villa Italia, situata all’ingresso sembra dipinta a mano, sopra una comune tavoletta da un muratore cui si è detto: « Ci siamo dimenticati della targa, ne faccia una provvisoria ». Altri ex-Re abitano nella zona, od aspiranti Re, hanno magioni imponenti (l’ultimo Braganza ha un palazzo assegnato da Salazar), servidorame in quantità, scuderia, parco macchine, panfili per crociere o motoscafi da corsa. Juan, uno dei tre pretendenti ti al trono di Spagna, tenne proprio nei giorni ch’ero a Cascais, una riunione di sessanta gentiluomini dai sonanti nomi venuti dalla Spagna, per discutere della successione al trono.
Raccontai al Re un episodio della sua popolarità in ceti elevati di Lisbona. Dovevo, con la mia auto targata Napoli, uscire dal centro di Lisbona, e immettermi nel tronco di autostrada che conduce a Cascais. Era di sabato, verso le tredici, l’ora di punta del traffico, ch’era quello di Roma, o di Milano, moltiplicato dal fatto che in Portogallo le auto sono prevalentemente di grossa cilindrata, e vaste dimensioni. Si avanzava per un minuto e si stava fermi cinque; e stando fermi il frullo dei motori, e le proteste dei clacson erano tali che non si udiva la voce del vicino. Mi sentii sperduto, e a un bivio fermai, tentando di parlare con l’agente, che dal suo trespolo lontano qualche metro mi faceva cenni imperiosi di proseguire. Una macchina mi superò da destra, il signore che la guidava mi gridò, in francese: « Mi segua! ». Lo seguii, e sia dallo specchio retrovisore, sia spesso affacciandosi, il volontario mi incoraggiava ad avere fiducia in lui. Ad una sosta prolungata scese, mi venne accanto, e sempre nel suo impeccabile francese, disse: «Macchina italiana, targata Napoli, certo lei va a Cascais, dal Re, La metterò sull’autostrada, da solo non ci arriverebbe ».La Casa di Umberto II è composta da una decina persone in tutto, dal padrone di casa all’autista; e tra i dieci anche Aldo Castellani il grande esperto di malattie tropicali, che fu senatore del Regno che abitò al Quirinale ospite di Umberto II cui volle unirsi anche nell’esilio; e Umberto gli ha aperto, a sue spese, un consultorio – beninteso gratuito – ove malgrado i suoi 84 anni Castellani riceve e cura, con un suo speciale metodo che avuto fortuna, una media di cinquanta malati al giorno. Andai a visitarlo, e mi sbalordì per la freschezza suoi ricordi, alcuni dei quali comuni, risalgono alla guerra di Etiopia. Castellani abita a Villa Azzurra insieme con il segretario di Umberto conte Olivieri, col capo della Casa conte Federico di Vigliano, e col barone Galli Zugaro, che sostituisce il capo della Casa quando è assente; si chiama Villa Azzurra, ma è una casetta con terreno e primo piano, in una via secondaria; in origine aveva forse un giardino o un parco; ora non ha nemmeno un orto; la speculazione edilizia l’ha circondata, quasi affogata di mura per fortuna ancora basse, non divenute grattacieli.
Umberto II è uscito dalla grave malattia ( che lo tenne degente in una clinica di Londra) ringiovanito. Va ad un pranzo, è spessissimo invitato in questo paese dove lo chiamano semplicemente “O Rey”, cioè il Re. Gliel’ho detto, arrivando, che ho avuto la sorpresa di sentirlo chiamare così sia dalla gente di Cascais sia a Lisbona stessa. Umberto ha ascoltato il racconto con un sorriso, appena accennato, di compiacimento.«Ma lei non si mette fuori dal suo itinerario?».
«Ci sono già», ammise, tornando al suo posto. E fu solo un’ora dopo, quando finalmente giungemmo al principio dell’autostrada, che scese di nuovo, per salutarmi. Scesi anch’io, e i nostri convenevoli ci fecero piovere addosso un coro di proteste, cui lui nemmeno badò, dicendomi: « Noi amiamo il vostro Re, e comprendiamo gli italiani che vanno a trovarlo ».
« Lei lo conosce? ».
« Non ho questo onore », e ci scambiammo l’ultimo inchino.
“Si – dice- ovunque sono stato bene accolto. Ma in nessun Paese come nel Portogallo“.
Non dimentichi l’Argentina, Maestà.
“L’Argentina?“
Quando vi andò da principino, così la chiamavano, era un ragazzo, allora, e l’accompagnava, severissimo, l’ammiraglio Bonaldi. Le feci da cronista sulle pagine della Patria degli Italiani, e non ho veduto mai, nei decenni successivi, manifestazioni come quelle. Fu il Suo primo incontro con gli Italiani all’estero, ed essi vollero eternare quel momento felice della loro storia spesso amara sottoscrivendosi e poi, con i loro tanti soldini messi insieme, costruendo una monumentale antenna portabandiera, che nel centro della Avenida Alvear, a Buenos Aires, innalza nelle ricorrenze la bandiera argentina più alta dell’intiera repubblica platense.
Avverto nella voce di Umberto, una nota più intima, quando dice: “Se scrive della sua venuta a Cascais, dica agli italiani all’estero che sono anch’io un italiano all’estero e li capisco assai più, oggi, dopo vent’anni di esilio, di quando ancora ragazzo, andai in Argentina. Ne compresi, allora, l’operosità, e l’amore per la patria, che indusse anche le associazioni repubblicane – ricorda? – a salutarmi, a stringermisi intorno. Non ne capii il dolore, che oggi è anche il mio. E perciò io penso ai dieci milioni di Italiani che vivono oltremare, e ai due milioni che lavorano nei paesi dell’Europa, con un sentimento un po’ particolare.
Quando vengono a trovarmi italiani dall’Italia, mi guardano come un fratello meno fortunato. Gli italiani all’estero mi guardano come uno di loro: meno fortunati loro ed io“.
Loro, però, possono tornare, hanno un passaporto che oggi ricevono gratis, valido per cinque anni. Vostra Maestà non ha quel passaporto. Ed è su questo punto che vorrei ardire una domanda rivolta non specialmente al sovrano, ma all’italiano all’estero. Me lo consente?
Levò un po’ il mento, fissandomi; sul chi vive. Ed io, vincendo un certo imbarazzo, dissi: “Se Vostra Maestà potesse, col Suo animo, però nella veste d’uno di quei milioni di italiani all’estero, compiere un viaggio in Italia, che itinerario seguirebbe?
Mi guarda con l’aria di pensare: “Un re se torna, torna da re“. Tuttavia, con la cortesia propria dei re viene incontro al giornalista: ” Qui a Cascais sono divenuto un lettore dei viaggi in Italia che da Virgilio, a Montaigne, a Goethe, a Dumas fino a Lawrence, e tanti altri, hanno scritto sul nostro paese. Vi è un settore della mia biblioteca dedicato a quelle opere; e spesso vi metto mano. Perché così viaggio in Italia anch’io; viaggio in Italia pure ascoltando i concittadini che come lei vengono a trovarmi; o seguendo la stampa“.
Dalla sua risposta mi rendo conto che la mia domanda era fuori di proposito, Maestà; non si rivolgono domande ai re così dirette. Ho una scusa: mi ero rivolto all’italiano all’estero. E tuttavia mi permetterei di insistere. Ecco: vuole consentirmi di immaginare che Vostra maestà sia uno degli italiani all’estero più fortunati, quelli che posseggono un’utilitaria; e che guidando quella utilitaria entra in Italia da Ponte San Luigi, si porta subito a Torino, parcheggia in Piazza Castello, e passeggia sotto i portici….
“C’è ancora Baratti e Milano?“
Credo, Maestà. E’ la confetteria dalle cui vetrine si vede Palazzo Reale?
“Si, e dove sono andato qualche volta, durante anni felici, quando comandavo un reggimento a Torino. E’ alla caserma di quel reggimento che mi piacerebbe andare nell’ora della libera uscita, per guardare i soldati e le loro nuove uniformi, più sciolte, più adatte ai nuovi compiti delle forze armate“.
Nostalgia dell’uniforme, Maestà, o degli anni che l’indossava?
“L’una cosa e l’altra. Ho, dai militari che vengono a trovarmi, buone notizie delle forze armate, della loro tecnicizzazione, dell’interesse che prendono i giovani ai congegni, spesso complicati e costosi, loro affidati“.
Vengono spesso a trovarla, i militari?
“Molti di quelli che mi furono compagni d’arme, e anche altri che ho conosciuto qui, nell’esilio. Ci fu, di recente, un raduno guidato da Paolo Caccia Dominioni; erano i guastatori superstiti di El Alamein, reduci dei vari fronti della guerra e alcuni congedati dalle recenti classi di leva di tutte le forze armate: fanteria, granatieri, alpini, bersaglieri, carristi, cavalleria, artiglieria, genio, marina e aviazione; e ogni specialità mi offrì un proprio cimelio“.
Parlammo ancora di Torino, di duecento lavoratori venuti da quella città, tra cui ottanta operai della Fiat in tuta, e tranvieri col berretto di servizio. Mi accorgo, da un certo fervore dell’intervistato, che l’invito del giornalista al re in esilio, di compiere un viaggio in Italia almeno con la fantasia, è stato raccolto; e perciò insisto: “E da Torino dove andrebbe?”
“A Milano, lungo l’autostrada che ai miei tempi era a una sola corsia; adesso è raddoppiata. A Milano andrei non solo per guardare i grattacieli, che ai miei tempi non erano ancora nati, ma per sentire i milanesi, quella straordinaria gente che sa vivere e contagiare a chiunque il suo ottimismo creativo”.
Prenderebbe l’autostrada del sole?
” Si e mi fermerei a Bologna, che visitai l’ultima volta da luogotenente, e fui accolto così calorosamente nella piazza allora chiamata D’Accursio, che Dozza dovette intervenire per frenare lo slancio dei più vicini“.
Dozza, il sindaco rosso di Bologna?
“Si, so che è stato un buon sindaco, per la città; e quando si è dimesso nelle settimane scorse, ho veduto che il direttore del Resto del Carlino gli ha dedicato l’articolo di fondo. Forse passando per Faenza troverei quell’artgiano che mi offrì un vaso simbolico, fatto con le sue mani, per me. E per andare a Firenze, e poi a Roma e Napoli, da Bologna, avrei un piacere e un dispiacere: di percorrere l’autostrada che mi dicono bellissima, specie nel tratto Bologna Firenze; ma non traverserei tanti paesi e paesini, ad ognuno dei quali sono legati ricordi che ho precisi nella mente. A Roma? Certo, mi fermerei anche a Roma. Chi non si ferma a Roma?“.
Sono io che gliene parlo di Roma, tanto cambiata dai suoi tempi. Il Quirinale, che Suo Padre, Vittorio Emanuele III, usava come ufficio, ora è costantemente e intieramente abitato dal presidente in carica Saragat, e quasi tutto è rimasto come prima.
Il Sovrano è assorto. Cade una lunga Pausa, che rompo io, dicendo : ” E poi andrebbe a Napoli?”. Si riscuote e sorride.
“La mia Napoli.” dice.” In nessuna città ho vissuto così intensamente, in nessuna città ha sentito di avere tanti amici“. E ricordando quegli anni fa la seguente osservazione: “Gli occhi dei Napoletani, specie del popolino, sono diversi da quelli di qualsiasi altra gente. Sono finestre aperte. Ci puoi guardare dentro.“
Dice anche : “La mia Calabria”, e tra tanti episodi ricorda che in un paesino della Sila ( Il cronista rimpiange di aver dimenticato il nome) dalla folla che gli si era assiepata intorno uscì un contadino che gli offrì una bottiglia di vino col tappo coperto di ceralacca rossa, un vino che risultò, quando lo bevve a Napoli, rientrando a palazzo, assai bene invecchiato e potente.
E poi, Maestà, dove andrebbe dopo la Calabria?
“Naturalmente andrei in Sicilia. Messina ha cambiato volto, mi dicono, e Palermo è tornata capitale. E la regione? Mi dica lei, come va la regione?”
Piuttosto male Maestà, negli ultimi anni. Andò bene, e prometteva di andare benissimo, nelle due prime legislature, quando ne fu presidente Franco Restivo, uno degli uomini più assennati della nostra democrazia.
“Ora è ministro“.
Si dell’agricoltura. E in questa promozione, di Restivo, da ex presidente della Regione, a ministro della nazione, risiede uno degli aspetti forse più positivi dell’ordinamento regionale; cioè la costituzione, attraverso i parlamentini, di una classe dirigente locale.
“Sarebbe vero se Restivo fosse rimasto a Palermo. Ma dal momento che è passato a Roma!“
Vostra Maestà è contraria all’ordinamento regionale?
“Temo che l’instaurazione di una forma di ordinamento regionale porrà in pericolo quell’unità nazionale che fu la meta del Risorgimento e che rappresenta la gloria maggiore della mia Casa. Le dirò di più: che sono favorevole al contrario dell’ordinamento regionale: cioè all’Europa unita“.
Umberto si leva, e l’udienza ha termine; forse perché è durata più del previsto, forse perché il discorso stava orientandosi verso la politica, argomento che mi ero impegnato col barone Galli Zugaro, cortese introduttore, di evitare nella conversazione.
“Oh si, abbiamo lasciato da parte la Lucania, la Puglia, il litorale adriatico, il Veneto, il Trentino, persino Trieste. Ma io l’autorizzo a scrivere che ci vado in quei posti, e in tanti altri del nostro Paese, tutti i giorni“.Dalla porta ci dividono quattro o cinque passi. Il Re accenna ad accompagnarmi, ed io ne approfitto per dirgli: ” Peccato Maestà, abbiamo interrotto un bel viaggio”.
Aggiunge tendendomi la mano:
“Purtroppo con la mia fantasia, non nella sua utilitaria“.
Lamberti Sorrentino – “La Nazione”- 17 aprile 1966 – Il Tempo n17, 27 Aprile 1966