I1 resoconto dei colloqui con Umberto di Savoia che il nostro settimanale va pubblicando a puntate da alcune settimane ha suscitato largo interesse e vivaci polemiche negli ambienti politici italiani. E’ superfluo precisare che questa nostra inchiesta vuole essere soltanto una esatta e inconfutabile ricostruzione di eventi storici ormai lontani nel tempo, non è e non vuol essere in nessun modo un atto di accusa contro l’attuale classe dirigente e contro il partito di maggioranza. Del resto lo stesso Umberto, come ho già scritto, ha riconosciuto lealmente gli alti meriti di Alcide De Gasperi e per quanto riguarda il “colpo di Stato” del giugno 1946 ha detto che “di tutto cuore” gli concede l’attenuante di avere agito in circostanze del tutto eccezionali. Lo stesso De Gasperi fu vittima della faziosità degli estremisti: difficile e pericoloso sarebbe stato, nel clima di violenza in cui l’Italia viveva in quel periodo, opporsi alla volontà di coloro che avevano affrontato il referendum col motto “O la repubblica o il caos”.
E’ un fatto comunque – non solo secondo i monarchici ma anche per leale ammissione di molti repubblicani non faziosi e di molti democristiani – che la questione istituzionale non può certo considerarsi risolta in modo ineccepibile e soddisfacente. Lo stesso De Gasperi malgrado la sua posizione assai delicata per il ruolo di protagonista che, volente o nolente, sostenne nel giugno 1946, ebbe occasione in seguito, più volte, di fare intendere che personalmente considerava tutt’altro che chiusa la questione istituzionale. Il 15 maggio 1949 durante un pubblico discorso in un teatro di Roma affermò: Quando alla Camera sono stato interpellato in proposito ho risposto – e come presidente del consiglio della repubblica Italiana non potevo che rispondere così – che la soluzione del giugno 1946 era definitiva. Mi hanno detto che non c’è niente di definitivo a questo mondo. Lo so. Voltiamoci a guardare la storia: quanti rivolgimenti improvvisi portano a conseguenze non prevedute. Però l’articolo 139 della Costituzione dice che la forma repubblicana non è soggetta a revisione costituzionale. Lo so che giuridicamente è possibile trovare il modo di cambiare questo articolo e quindi ricorrere eventualmente a un altro referendum… ” Nel corso di un comizio a Napoli lo stesso De Gasperi ebbe anche a dichiarare che “la questione monarchica, anziché essere chiusa, potrà, con le forme costituzionali, essere ripresa quando una più tranquilla situazione del Paese permetterà una discussione ed un voto sereno “.
In quanto alla “regolarità del referendum sono molti fra i democristiani coloro che hanno sempre manifestato apertamente dei dubbi, la “calcolatrici di Romita furono per anni e anni, negli ambienti politici, spunto per caustici commenti e battute ironiche non soltanto da parte dei parlamentari monarchici. Citerò un solo esempio. Alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 il successore di Romita agli interni, l’onorevole Scelba (che faceva parte del governo all’epoca del referendum e non era certo sospetto di particolari simpatie filomonarchiche), ottenne grande successo di ilarità, durante un comizio a Roma, raccontando un episodio assai significativo.
Un pasticcio nell’urna
Un quotidiano lo riferì il giorno dopo in questi termini. « Il alle- a cesso maggiore è toccato al ministro degli interni, quando è tornato sul tema di Romita. Ha detto che stavolta non si avranno brogli elettorali, come quelli che si ebbero il 2 giugno 1946. A tale proposito Scelba ha raccontato che dallo scrutinio di una sezione risultò che tutti avevano votato per la repubblica. Ma il presidente del seggio disse: “Qui c’è un pasticcio senza dubbio. Mia moglie ha detto di avere votato per la monarchia e mia figlia lo stesso: possono avere detto una bugia, come fanno le donne facilmente. Ma il mio voto, per lo meno, ci deve essere. Io ho ben votato per la monarchia. La mia scheda dov’è andata a finire?”. Così la folla si divertiva .
Se ben pochi, anche fra i repubblicani, credono alla regolarità del referendum è altrettanto vero che ben pochi, anche fra i monarchici credono alla concreta possibilità di riaprire in qualche modo a questione istituzionale. Sussistono a questo proposito molti equivoci. I pettegolezzi diffusi nei giorni scorsi a proposito di una eventuale rinuncia del principe Vittorio Emanuele ai diritti dinastici di successione sono apparsi a molte persone come una questione “elegante” ma del tutto teorica e non suscettibile di conseguenze pratiche n un futuro più o meno remoto. Durante I nostri colloqui a Cascais ho fatto notare a Umberto di Savoia: «Molti italiani ritengono che a partenza di Vostra Maestà per l’esilio sia stata una vera e propria abdicazione, la rinuncia perpetua a1 trono per sé e per i discendenti di casa Savoia».
Ha risposto:«Lo so: ancora oggi ricevo lettere di gente umile che mi rimprovera, sia pure affettuosa. mente, di avere rinunciato al trono “per sempre”. Si tratta di un equivoco. Non ci fu atto di abdicazione, da parte mia, né poteva esserci nulla di simile. Avrei abdicato, senza esitare, senza rimpianti, e per sempre, per me e per i miei discendenti, se dal referendum istituzionale avessi tratto la certezza, suffragata da un libero approfondito giudizio della magistratura, che la maggioranza del popolo italiano ne aveva veramente abbastanza della monarchia e dei Savoia. Ma questa certezza, in tutta coscienza,non l’ebbi. Anzi, malgrado tutto, ebbi la certezza del contrario: certezza che è andata via via cementandosi in questi anni di esilio. Non potevo dunque abdicare: e non per considerazioni egoistiche a nell’interesse della mia casa. Regnare non è facile, né divertente, mi creda. La posizione di re (come pure quella di principe ereditario) impone sacrifici a volte durissimi. Tutto sommato è assai più comoda la vita di esule, che mi permette di coltivare i miei studi, di viaggiare in incognito, di passare giornate intere, nelle biblioteche e nei musei, di fare dello sport, di educare e amare i miei figli come un padre qualsiasi senza il rigore e il, distacco che la posizione ufficiale imporrebbe e che io personalmente sperimentai nella mia adolescenza e giovinezza. La mia vita di esule sarebbe addirittura piacevole e invidiabile, se non ci fosse ad amareggiarla un solo rimpianto: quello di non poter rivedere, almeno di quando in quando, il mio Paese. Non potevo abdicare e non abdicai semplicemente perché così facendo avrei avuto la netta e intollerabile impressione di tradire i sentimenti e la volontà del mio popolo ».
Monarchici di sinistra
« Ciò significa che Vostra Maestà si considera ancora, di fatto e di diritto, il re degli italiani? »,
« Lei usa un linguaggio ben poco diplomatico, mio caro amico ».
« Ritengo che sia necessario dire le cose apertamente, non sottintenderle con nebulosi giri di paro1e appunto per non creare equivoci »
« Ebbene, le dirò allora che non mi sonò mai considerato pomposamente “il re degli italiani”, come lei dice. Mi sono sempre considerato e mi considero tuttora il più umile e devoto servitore del mio Paese e del mio popolo, ecco tutto ». Quindi Vostra Maestà non ha rinunciato alla speranza di una più o meno prossima restaurazione monarchica in Italia? ».
Non si tratta di una speranza, mio caro amico, io non spero e non chiedo nulla. Ma se Iddio vorrà un giorno pormi di nuovo al servizio del mio Paese e del mio popolo, non esiterò certo a rispondere all’appello ».
Mi affido a Dio
Oggi in Italia la repubblica è un dato di fatto accettato, con maggiore o minore rassegnazione, anche dai monarchici. In che modo Vostra Maestà ritiene che il popolo italiano possa domani manifestare e imporre eventualmente la volontà di un ritorno alla monarchia?
Questo problema non mi riguarda. Io, lo ripeto, non spero e non chiedo nulla. Mi affido serenamente a Dio. Sarà ciò che Dio vorrà .
Molti ritengono che l’esistenza di partiti che, fino a poco tempo fa, si presentavano sulla scena politica italiana con una esplicita etichetta monarchica, abbia in sostanza danneggiato, più che favorito, la causa per la quale dicevano di combattere, suscitando forse l’impressione che il numero degli italiani simpatizzanti per la monarchia coincidesse col non altissimo numero dei voti ottenuti da tali partiti nelle competizioni elettorali, e quella più grave che gli ideali monarchici si identificassero con i programmi politici e sociali di tali partiti.
Impressione errata, ovviamente perché il referendum del giugno 1946, malgrado tutto, dimostrò che la fede monarchica era più o meno largamente diffusa in tutte le classi sociali e nelle file di tutti i partiti politici. Mi è stato riferito che qualche tempo dopo la mia partenza per l’esilio De Gasperi ebbe a confessare a un mio collaboratore: “Io sono il rappresentante del più forte partito monarchico, perché a conti fatti si é visto che degli otto milioni di italiani che hanno votato per la democrazia cristiana, circa sei milioni e mezzo votarono al referendum per la monarchia”. E persino dall’estrema sinistra, benché possa sembrare inverosimile data la situazione esistente in Italia nel 1946, vennero voti alla monarchia: se ne ebbe la prova in certe località dell’Italia settentrionale dove la maggioranza repubblicana al referendum risultò inferiore al numero dei voti ottenuti dal soli socialcomunisti nella simultanea consultazione per la Costituente .
« Oggi i partiti di Lauro e Covelli si sono finalmente riuniti e hanno dato vita al partito democratico Italiano, rinunciando cioè all’etichetta esplicitamente monarchica. C’è chi ritiene che ciò facendo abbiano risposto a un espresso desiderio di Vostra Maestà ».
« Non è esatto. Io non potevo certo interferire nelle vicende politiche italiane. La decisione di unificare i due partiti monarchici e dare vita al partito democratico italiano non è certo partita né poteva partire da me» .
«»A Vostra Maestà, comunque, dispiaceva che i due partiti monarchici, con le loro rivalità personali e i loro interessi politici contingenti, potessero in qualche modo dare l’errata impressione di agire in nome del re e di rispecchiare gli ideali monarchici? «»
«Io ho molta gratitudine per coloro che più apertamente e generosamente hanno lavorato e lavoreranno in futuro per gli ideali monarchici, anche se possono avere commesso errori o addirittura conseguito risultati controproducenti: a me non interessano i risultati, ma mi commuovono i sentimenti di affetto e di fedeltà dei miei compatrioti. Appunto perciò ho molta gratitudine per gli uomini “di punta” del movimento monarchico. Ma non desidero apparire (e del resto credo di averlo dimostrato ampiamente in tutti questi anni) come il leader di un partito politico (o addirittura di due partiti politici in contrasto fra loro). Qualunque sia la sorte che mi riserba l’avvenire, io non sarò mai il re (come dice lei) o l’umile servitore (come preferisco dire io e non per falsa modestia) di una fazione, ma soltanto di tutta la nazione».
Un ospite incomodo
«Quali furono, cambiando argomento, i motivi che indussero Vostra Maestà a scegliere il Portogallo come Paese di residenza nell’esilio? ».
Non avevo molte possibilità di scelta: un re deposto dal trono e bandito dal proprio Paese come fosse un pericoloso cospiratore non é un ospite comodo, mi creda. Non potevo chiede ospitalità a Paesi confinanti con l’Italia, senza mettere in grave imbarazzo i rispettivi governi. Anche oggi, quando mi devo recare, per brevi soggiorni, in Francia o in Svizzera, cerco di passare il più possibile inosservato, per non dare grattacapi alle autorità, che a dire il vero mi hanno sempre trattato con squisita cortesia. Ricordo, ad esempio, la delicatissima situazione in cui mi trovai, alcuni anni or sono, durante un mio viaggio in Francia. Ero a Cannes quando fui avvertito che da Mantova erano giunti quattro torpedoni carichi di italiani, i quali avevano varcato la frontiera al solo scopo di vedermi e salutarmi. Sarebbe stato crudele rifiutare di riceverli. D’altra parte non potevo farli venire in albergo, dove senza dubbio avrebbero dato luogo a una rumorosa manifestazione di entusiasmo e di simpatia. Avevo ottenuto il visto di entrata in Francia per motivi strettamente privati: non volevo che la mia presenza assumesse, sia pure per un’ora, l’aspetto di un tentativo di propaganda monarchica in territorio francese con chissà quali ripercussioni in campo diplomatico. Misi al corrente della mia penosa situazione il capo della polizia. Insieme trovammo la soluzione. Chiesi a un italiano di Cannes, che conoscevo, di prestarmi il suo giardino: e così in quel giardino privato i miei cari amici mantovani ebbero modo di manifestarmi tutto il loro affetto, senza che per questo io dovessi mancare alle regole della discrezione verso il Paese che mi ospitava.
Se non potevo fissare la mia residenza in un Paese troppo vicino all’Italia, non volevo neppure sceglierne uno troppo lontano. Il Portogallo era per molte ragioni il Paese più idoneo ad accogliermi. Devo aggiungere che i portoghesi, dalle più alte autorità ai più umili popolani, mi hanno accolto con squisito senso di ospitalità e hanno fatto tutto il possibile per alleviare le amarezze del mio esilio. Il Portogallo è per me quasi una seconda patria”.
Ti manderemo dalla zia
A orientare Vostra Maestà nella scelta non contribuì in qualche modo il ricordo dell’esilio di Carlo Alberto?
«Certo sulla mia scelta influì, più o meno inconsciamente, anche il ricordo di Carlo Alberto, per la cui memoria, fin da ragazzo, ho avuto sempre una specie di culto (fra l’altro, a giudicare da certi ritratti somigliava a me fisicamente). Del resto, a parte Carlo Alberto, altri ricordi di casa Savoia sono legati indissolubilmente al Portogallo, ricordi di dolore e di fierezza».
Tre principesse di casa Savoia, infatti, sono state regine del Portogallo. La prima fu Mafalda, sposa di Alfonso Henriques, il primo re portoghese. La seconda fu Maria Francesca di Savoia-Nemours che verso la fine del XVII secolo fu sposa di re Alfonso VI e in seguito, ottenuto l’annullamento del matrimonio per una grave tara psichica dei marito, passo a seconde nozze con re Pedro II, fratello dello stesso Alfonso e suo successore sul trono.
Una principessa sabauda fu la prima regina del Portogallo. Il destino volle che un’altra regina di sangue sabaudo assistesse al tragico declino di quella monarchia. Si tratta di Maria Pia, figlia del re Vittorio Emanuele II e sorella del futuro re Umberto I, la quale, il 27 settembre 1862, andò sposa al re Luigi I del Portogallo. Maria Pia era una donna energica e intelligente. Regnò per molti anni serenamente e felicemente, molto amata dai suoi sudditi. Ma al termine della sua vita la sventura si abbatté sul suo capo. Nel febbraio 1908, quando era già vedova e viveva appartata nel castello di Cintra, suo figlio, il re Carlos I, e il suo nipotino il principe ereditario Luiz Felipe, furono trucidati in una piazza di Lisbona. La vecchia regina non cessò per questo di amare la sua patria di adozione e il suo popolo. Riversò il proprio affetto sull’altro nipote, Manuel, che, appena diciottenne, succedette al padre sul trono. Ma due anni dopo la rivoluzione repubblicana ebbe il sopravvento e re Manuel fu costretto a partire per l’esilio. La vecchia regina Maria Pia nemmeno allora cessò di amare la sua patria di adozione: non voleva abbandonare il castello di Cintra dove conduceva una esistenza quasi monacale. Più tardi però gli eventi la costrinsero a riparare in Italia, nel castello di Stupinigi, dove morì pochi mesi dopo. Malgrado le prove atroci degli ultimi anni, la sua patria di adozione e i suoi sudditi furono sempre al vertice dei suoi pensieri e del suo amore. Quando comprese che stava morendo volle che il suo letto fosse voltato verso il Portogallo.
«Io vidi la regina Maria Pia soltanto poche volte quando ero molto piccolo», mi racconta Umberto, «ma provavo per lei, forse perché profondamente toccato dalla sua tragedia e dal suo grande coraggio, un affetto particolare e una sconfinata ammirazione. Fu in omaggio alla sua memoria che volli poi chiamare Maria Pia la mia prima bimba. Ricordo anche, ed è uno dei primi ricordi della mia infanzia, che mia madre, quando avevo quattro e forse cinque anni, mi prometteva a volte: “Se sarai buono ti manderemo in Portogallo dalla zia”. Ebbene», conclude scherzosamente per dissipare un’ ombra di commozione, « si vede che “da grande” sono stato “troppo buono” poiché In Portogallo mi ci hanno mandato per sempre» .
Paura di notte
Quando Umberto di Savoia, il 14 giugno 1946, giunse in Portogallo, non si stabilì subito a Cascais. La sua prima residenza provvisoria fu a Colares, dove già si trovavano da alcuni giorni la regina Maria José e i principini. Fu, quella di Colares, una residenza di fortuna, quasi un accampamento per sfollati o sinistrati, mancante, almeno nel primi giorni, di qualsiasi comodità. Non c’era stato tempo per organizzare in qualche modo la vita d’esilio della famiglia reale. Si era provveduto a una soluzione di ripiego all’ultimissimo momento. La duchessa di Cadaval, residente in Italia, telegrafò a Colares, alla marchesa Olga di Cadaval, sua nuora, preannunciandole, con appena due giorni di anticipo, che a lei sarebbe toccato l’onore di ospitare provvisoriamente la famiglia reale.
In due giorni la marchesa Olga Ai Cadaval preparò, come meglio le fu possibile, la sua villa di “Bela Vista” che da molti anni giaceva in abbandono ed era, fra l’altro, infestata dai topi. Mancava anche la corrente elettrica e per alcune settimane (fino a quando non furono ultimati i lavori di collegamento che il governo portoghese ordinò con molta sollecitudine e cortesia) la famiglia reale non ebbe altra illuminazione che le candele. Di sera la villa di “Bela Vista” diventava spettrale e le tre principessine avevano paura. Come se non bastasse, correva voce che fra quelle mura tetre e, a quell’epoca, semidiroccate, si aggirasse nottetempo un fantasma. Si diceva, anzi, che proprio a causa del fantasma la villa fosse rimasta per tanti anni disabitata. E per la verità, fossero i topi o che altro, di notte si udivano spesso misteriosi e inquietanti rumori. Non mancava, fra il personale di servizio, chi credeva veramente al l’esistenza del fantasma e ne era terrorizzato. Umberto e Maria José erano assai preoccupati per le bambine (il principino, invece, che fin da piccolo è stato sempre molto coraggioso, non si curava minimamente del fantasma).
« Per fortuna mi racconta Umberto, mia moglie e l’istitutrice irlandese miss Smith ebbero finalmente una buona idea e riuscirono a mettere in fuga una volta poi sempre il povero fantasma, spaventandolo a sua volta, come nel famoso racconto di Oscar Wilde. Si procurarono una zucca, la svuotarono e, con alcuni buchi opportuna. mente dislocati, la trasformarono in una specie di grottesco testone A sera sistemarono una candela accesa all’interno della zucca, che fu poi infilata su un manico di scopa avvolto in un fluttuante lenzuolo. La zucca, che così paludata e con quei buchi infuocati al posto degli occhi e della bocca acquistava nell’oscurità un aspetto abbastanza impressionante, fu collocata pei una intera notte in un corridoio dell’ultimo piano. “Quando Il fantasma si troverà faccia a faccia con questo suo terribile collega”, disse mia moglie ridendo, “prenderà un tale spavento che fuggirà a gambe levate e non lo vedremo mai più in questi paraggi”. Lo scherzo della zucca divertì moltissimo le bambine, che da quella sera non ebbero più paura: ed era proprio questo lo scopo che mia moglie e miss Smith si prefiggevano. Anche le persone di servizio risero di cuore. Fu così dissipata una volta per sempre la sciocca e preoccupante superstizione: del fantasma di Bela Vista non se ne parlò più.
Due inverni al freddo
Salazar aveva personalmente reso omaggio alla regina Maria José all’indomani del suo arrivo in Portogallo. Umberto si recò poi a fare visita, per ringraziarli dell’ospitalità, al presidente della Repubblica portoghese, Carmona, e allo stesso Salazar, i quali restituirono poco dopo la visita e furono ricevuti nella villa di Colares: malgrado la provvisorietà e i disagi di quella residenza, il ricevimento non mancò di regale solennità. Umberto, infatti, riesce sempre a conciliare, quando le circostanze lo esigono, la modestia e semplicità della sua vita privata coi doveri del suo rango, ai quali non è mai venuto meno. Carmona e Salazar durante quel ricevimento ufficiale, ebbero la netta impressione di trovarsi, non in una casa di campagna semidiroccata e infestata da topi e fantasmi, ma in una autentica reggia
A Colares, nella villa di Bela vista la famiglia reale abitò soltanto alcuni mesi. Poi si trasferì a Cascais, in un palazzo appartenente al conte di Monte Real e qui trascorse due inverni: era una residenza vasta, ma impersonale e fredda, priva dell’impianto di riscaldamento. Finalmente Umberto mise gli occhi sulla villetta in cui vive tuttora, piccola e modesta, ma assai romantica. Non l’acquistò: si limitò a prenderla in affitto.
Frattanto la regina Maria José era stata costretta a lasciare Il Portogallo per trasferirsi in Svizzera a causa di una infermità che minacciava di farle perdere la vista. I suoi occhi delicati non sopportavano il clima atlantico. Questo l’ha portata a vivere la maggior parte del tempo separata dal marito durante tutti questi anni. E anche il principe Vittorio Emanuele ha vissuto e vive la maggior parte del tempo lontano dal padre, con la madre, la quale si è occupata personalmente della sua educazione. Per Umberto di Savoia all’amarezza dell’esilio si è aggiunta un’altra e più segreta amarezza: la frattura della famiglia, la lontananza della moglie e del figlio, una solitudine che egli sopporta in silenzio con grande serenità e dignità, ma che – credo di non sbagliare affermandolo – gli pesa terribilmente.